lunedì 17 dicembre 2007

Unica lex


Mi viene da ridere, quando sento un esponente del centro-sinistra che critica l'attuale legge elettorale (ultimo tra questi, Prodi nel grande contenitore Faziano). Sembra infatti che nessuno di questi ricordi che, secondo molti, il vero segreto del recente successo elettorale della compagine del mortadella è proprio da ricercare nei trabocchetti del sistema di assegnazione dei vari seggi. Quindi, se il politico X è seduto sulla sedia Y, è dovuto al fatto che questa legge esiste, o comunque tutto ciò ha contribuito.

Mi viene da ridere, quando senti un esponente del centro-destra che critica l'attuale legge elettorale (Berlusconi spesso ha parlato di legge anti-costituzionale). Sembra infatti che nessuno di questi ricordi che sono stati loro a inventarla, proporla, votarla, con il malcelato assenso della minoranza di allora. Pensavano che questa metodologia di voto potesse aiutarli a sconfiggere il nemico comunista, ma così non è stato, anzi.

Diciamoci la verità: entrambi gli schieramenti erano felicissimi dell'attuale legge elettorale: potevano decidere loro chi candidare, quindi gli amici di sempre, gli arrivisti, i vari cugini e nipoti. Poi, una volta seduti comodamente sulla seggiola, come spesso capita si sono azzannati per difendere i presunti diritti dei cittadini: "la democrazia significa che è l'elettore a dover decidere chi votare! Sogniamo un'Italia in cui il popolo sia sovrano!" E chi più ne ha, più ne metta.

Il tutto non fa altro che confermare la teoria secondo cui non importa chi si voti, non importa chi sia al governo, alla fine: finchè non ci sarà un gruppo politico che non abbia interessi personali, la "cosa pubblica" sarà bistrattata e nulla più che un insieme eterogeneo di "cose private", di proprietà dei pochi che hanno il potere di decidere.

Aveva ragione il Guccio, anni fa: “Il potere è l’immondizia della storia e degli umani / e anche se siamo soltanto due romantici rottami / sputeremo il cuore in faccia all’ingiustizia giorno e notte / siamo i grandi della Mancia: Sancho Panza e Don Chisciotte”

venerdì 7 dicembre 2007

Greatest hits


Charlie, il mio personaggio preferito di "Lost", in una delle ultime puntate della terza stagione scrive un greatest hits della sua vita: è sicuramente uno degli episodi più belli della serie, commovente quasi fino alle lacrime. Il nostro piccolo ex-hobbit, sapendo di poter morire da un momento all'altro, scrive su un foglio i cinque momenti più belli che ricorda di aver vissuto, perchè li possa avere Claire, quando lui non ci sarà più.
Sono momenti semplici, che di fronte alle cazzate che preoccupano una persona nel corso di una vita spariscono, ma quando si rischia di perdere tutto, invece, rendono gli anni passati preziosi, densi di significato.

Ho pensato quindi: se morissi oggi, quale sarebbe il mio personalissimo greatest hits?
Eccolo, senza pensarci troppo.

5) Quando hanno pubblicato il mio primo articolo
4) L'abbraccio di mio fratello dopo quel gol, quella sera
3) L'adunata degli alpini, con mio nonno, da bambino
2) Quando Diana mi ha chiamato "il suo eroe"
1) La prima volta che ho dormito con lei

I cinque momenti migliori, che mi vengono in mente adesso, della mia squallida, inutile vita. Come direbbe Charlie, il mio personaggio preferito

giovedì 29 novembre 2007

No beauty, no party


Una nota pubblicità di prodotti cosmetici termina il proprio messaggio promozionale con l'inquietante espressione: "La bellezza è un diritto di tutti".

Cosa intende? Se lo slogan serve a significare che tutti hanno diritto a godere di un po' di bellezza quotidianamente, tra tutte le sfighe che possono capitare, allora si, sono daccordo. Ma temo che il messaggio sia un'altro: la bellezza è una caratteristica a cui hanno diritto tutti. E non credo proprio sia così.

La bellezza, proprio perchè tale, è un attributo soltanto di qualcuno; ci sono vari tipi di bellezza, che rispondono tutti a canoni decisamente soggettivi, questo è ovvio: ma soprattutto per quel che riguarda la bellezza "estetica", fortunatamente non si tratta proprio di una proprietà universale. Anzi, senza una massa informe e anonima, la bellezza non significherebbe nulla.
Non si spegherebbe altrimenti come mai hanno così successo i programmi televisivi in cui la bellezza è ostentata, svuotata, svenduta per nulla: tutti possono essere come Costantino, come Kate Moss. Se la bellezza fosse veramente di tutti, non si vedrebbero intere generazioni di ragazzine pettinate con la stupidissima frangia della Tatangelo, per capirci. Questo è ciò che si ottiene nel voler rendere "universale" la bellezza.
I film, in genere, sono farciti di splendore in ogni personaggio, dal protagonista al fattorino che compare in una scena di spalle, per questo spesso hanno un successo spropositato rispetto alla qualità vera della pellicola: è un mondo perfetto, ma lontanissimo da quello che è il nostro; ce ne rendiamo conto tutti, anche il più scemo. Io non auspico che la bellezza diventi una proprietà di tutti, i beni più preziosi sono anche i più rari.

Anzi: ben venga la "non-bellezza": così vedere la propria ragazza, e pensare che sia bella, ha un significato. Ci si sente fortunati quando si può godere della bellezza altrui, quando la si individua. Scorgere quel tratto, quella caratteristica, quel gesto, è un'emozione che riempie come poche.
Non toglieteci pure questo.

sabato 17 novembre 2007

Susan "Sadie" Atkins


Guardate per un attimo la foto che apre questo mio post.
Bella, vero? Sembra la classica brava ragazza della porta accanto, oppure quella che si siede vicino a te all'università, quella che ti colpisce per la sua timidezza e l'ordine con cui prende gli appunti.
Sarebbe la classica fidanzata da presentare ai genitori, elegante e educata.

Bene, guardatela ancora per qualche secondo.

Quella ragazza è Susan "Sadie" Atkins, ovvero la più spietata delle ragazze della Manson Family. L'8 agosto 1969 entrò a 10050 Cielo Drive, Beverly Hills, alla villa che Sharon Tate e il marito Roman Polanski avevano appena comprato da Terry Melcher, insieme ad altri tre compomenti della "famiglia", torturando e massacrando tutti i presenti. Sharon Tate era incinta di otto mesi, la sera che venne uccisa.
Durante il processo, ammise di essere l'autrice dell'omicidio della donna, e di aver "leccato il suo sangue dalle dita".

Adesso guardate di nuovo la foto.
Fa un effetto diverso, vero?

P.s. Ho ascoltato la storia di Manson e la sua family nel programma di Carlo Lucarelli su radio dj: successivamente sono corso su internet, per informarmi e scartabellare i documenti dei processi, le fotografie, le cronache agghiaccianti. Non sarei così interessato a studiare psicologia criminale, se queste cose non destassero un certo fascino su di me, ma non fraintendete: non stimo queste persone, non stimo Susan Atkins. Anzi. Il fatto che fosse una ventunenne "succube" di una personalità come quella di Manson, non la accetterò mai come giustificazione.

Se qualcuno di voi, però, fosse interessato ad approfondire, a conoscere meglio quella ragazza della foto, vada qui.

Per una ricostruzione, invece, dei fatti della notte dell'8 agosto, vi rimando al blog di Alexandra.

sabato 10 novembre 2007

Viaggiando con Morrison


Ero alla stazione, aspettavo il treno per torino, e l'iPod riempiva le mie orecchie di Morrison, per l'ossessione che ritorna.
Ho visto, a un certo punto, un amico che proprio amico non è, di quelli che se li incontri sul treno non sei abbastanza estraneo per far finta di nulla, ma nemmeno abbastanza conoscente da poter viaggiare insieme, discorrendo. Persona appiccicosa per di più.
Eventualmente, se lui mi avesse visto, sarebbe stata un'ora di imbarazzi e frasi di circostanza. Ho deciso, quindi, di girarmi dall'altra parte, prima che lui si rendesse conto di me, facendo anche finta di telefonare, per essere sicuro che, anche se mi avesse notato, non avrebbe avuto il coraggio di avvicinarmi.
Quando il treno era ormai arrivato, lui mi si era però avvicinato: vedevo la sua immagine riflessa nella lucida fiancata del convoglio, che aspettava, proprio dietro di me che le porte si aprissero. Ero fregato.
Conclusi con pochi convenevoli la mia telefonata immaginaria, mi piegai per raccogliere le valigie, sicuro che lui mi avrebbe attaccato inevitabilmente bottone, ma mi passò invece di fianco, senza voltarsi, e si buttò in un vagone. Io, con abile sapienza tattica, mi gettai nel vagone antistante, evitando così, con un certo compiacimento, di starlo a sentire fino a Porta Nuova.
Poi, però, il compiacimento mutò rapidamente in dubbio: era impossibile che non mi avesse visto. E quindi? E quindi forse lui stesso aveva cercato di evitarmi. Ma come? Una persona che "planetariamente" è considerata uno sfigato, mi evita?
Lui si permette di evitare me? Mi attanagliò un indescrivibile sconforto, mentre la voce piena di Morrison di certo non aiutava a scacciare i fantasmi.
Avrei voluto alzarmi per andare di là a chiedergli come si era permesso, lui, di evitare me. Spaccargli la faccia, magari. Una vocina intanto mi chiedeva, inascoltata, perchè ne facevo un dramma, visto che avevo desiderato con tutto me stesso, solo pochi minuti prima, di potergli sfuggire.
Ne faccio un dramma perchè non posso essere rifiutato, sono io a rifiutare gli altri.

Before I sink into the big sleep, I want to hear, I want to hear... The scream of the butterfly.

I treni, i pullman, sono sempre pieni di una musica invisibile. Ogni persona che incontri con un paio di cuffie nelle orecchie, ha una colonna sonora per il viaggio che sta percorrendo: sono melodie diverse, l'una dall'altra, per lo stesso film.

La colonna sonora è così importante per la buona riuscita del film?

mercoledì 24 ottobre 2007

Nemesi


Non era la pioggia il problema, anche se era fermo sul lato opposto della strada da qualche minuto ormai, e la giacca grigia di Ck era scurita dalle spesse goccie e i capelli incominciavano a incollarsi in grosse ciocche alla fronte. La solita massa umana lo schivava infastidita, guardandolo come se fosse un extraterrestre caduto chissà quando dal cielo, resosi appena conto della cosa. Solo l'aver dimenticato l'ombrello sull'astronave sembrava infastidire la gente della Città.
L'uomo fissava qualcosa sul lato opposto della strada, come detto: uscendo di casa quel mattino non aveva immaginato di poter perdere l'appuntamento con il cliente, ma non era nemmeno quello il problema. Sicuramente quello l'avrebbe aspettato per un po', seduto al bancone dell'Hilton, sorseggiando Martini a ripetizione, per poi andarsene, e la sua azienda avrebbe perso l'affare da settecentonovanta milioni. Ma no, non era questo il problema. Le dita della mano destra, sulle quali si incastonavano grosse perle d'acqua, stringevano forte la ventiquattrore, anche se avrebbe preferito di gran lunga lasciarla cadere a terra e correre via. Ma non riusciva a scostare nemmeno lo sguardo, figuriamoci i muscoli necessari a muovere un dito. Sapeva (l'aveva letto su diverse riviste specializzate) che la paralisi di ogni arto era il primo sintomo: una paralisi mentale, non fisica: forse avrebbe potuto, credendo di più in se stesso, sciogliere le membra e cercare una flebile opposizione, ma non ne era capace.
Si ricordò cosa sarebbe successo di li a poco: avrebbe sentito un calore sempre maggiore crescere dalle viscere, seguito dal classico formicolio agli arti inferiori; la fase tre sarebbe consistita in un progressivo annebbiamento della vista, fino alla quasi totale cecità. Da qui in poi si sprecavano le ipotesi, nessuno era mai riuscito a raccontare il seguito: ma non era questo il problema, non era questo che lo preoccupava.
Il problema era che non era riuscito a dirle che l'amava. L'avrebbe fatto quella sera stessa, dopo lavoro. Avrebbe messo il suo vestito nuovo, comprato per l'occasione, e l'avrebbe portata nel nuovo locale sulla sedicesima, gestito da chissà quale attore di successo. C'era solitamente una lista d'attesa di mesi, ma lui era riuscito a prenotare un tavolo. Il ristorante giusto, la musica e l'atmosfera giusta: lei non avrebbe potuto nè voluto resistergli. Era ormai da tempo un uomo di successo, il rifiuto non era concepito nel suo vocabolario. No, lei avrebbe ricambiato, era già tutto accaduto decine di volte all'interno del film nella sua testa.
Ma sarebbe rimasto solamente un vezzo mentale, la Nemesi lo aveva trovato prima. Cominciò a sentire il calore che gli avvolgeva lo stomaco, proprio mentre si rendeva conto che mai lei avrebbe saputo ciò che lui provava per lei, che l'amava dal primo momento in cui l'aveva incontrata alla tavola calda. Era da sola, quel giorno, seduta a un tavolino di fronte al suo leggeva un libro di un autore ventunenne suicida russo. Aveva i capelli disordinatamente tenuti insieme da una pinza, gli occhiali con una montatura rossa e si mordeva un labbro mentre sfogliava le pagine, una dopo l'altra. Aveva un'espressione seria, e lui aveva da subito adorato come lei beveva il suo frullato senza smettere di leggere nemmeno per un secondo.
Era ormai zuppo dalla testa ai piedi, non sentiva freddo, però: gli organi interni bruciavano letteralmente, avrebbe vomitato la colazione in mezzo alla strada, se solo gli fosse stato possibile.
Erano usciti a cena due o tre volte, dopo quel giorno alla tavola calda: lui era letteralmente partito, affascinato da come lei parlava con disinvoltura di arte, cinema, musica, senza però ostentare alcun tipo di saccenza o presunzione. Non si erano ancora mai baciati, manco a dirlo, e adesso sapeva che mai sarebbe successo. Il formicolio alle gambe iniziò a fargli mancare il terreno da sotto i piedi proprio mentre un tizio al cellulare gli dava una spallata, imprecando. Da sempre fastidio un uomo che se ne sta in mezzo al marciapiede, mentre fissa un punto lontano.
Quando la vista cominciò ad annebbiarsi, ricordò per qualche secondo l'ultima volta che l'aveva vista.
Era bellissima. L'aveva invitato a pranzo da lei, la domenica precedente: gli aveva aperto la porta con un maglione di diverse misure più grande e un paio di jeans, poi si era seduta su una poltrona con le gambe accavallate, aveva versato due bicchieri di vino rosso e avevano mangiato e parlato e lei era così fragile e piccola che lui avrebbe voluto chiederle di sposarlo, di avere un figlio insieme, e avrebbe voluto giurarle che l'avrebbe protetta e amata per sempre, che si sarebbe preso cura di lei e che non avrebbe mai avuto bisogno di lavorare o preoccuparsi di nulla.
Però non era riuscito. E quando era giunto il momento di andare, c'era stato quel momento di imbarazzo in cui lei apre la porta e rimane sulla soglia, quindi lui si deve schiacciare contro il muro per passare ma comunque la sfiora, e poi quando è fuori di avvicina per darle due baci sulle guance, ma in realtà è un'altro il bacio che vorrebbe chiederle, e lei sa perfettamente che cosa potrebbe succedere, e c'è elettricità nell'aria, e lei se ne sta lì con le braccia a metà tra un abbraccio e qualcosa di più, e lui alla fine non ce la fa, la bacia sulle guance e si rende conto che lei aveva chiuso gli occhi, oppure gli era solo sembrato, e poi se ne va mangiandosi le mani, e vorrebbe voltarsi, ma troppo tardi, perchè ha già sentito chiudersi la porta alle sue spalle.
Avrebbe voluto piangere, ma si rendeva conto che dopo la cecità, sopraggiunta da poco, se ne erano andati uno dopo l'altro anche gli altri sensi. Mentre il respiro affievoliva, tornò per un secondo di fronte alla porta di lei, convincendo il ricordo a compiere quel qualcosa che non avrebbe potuto

Nell'esatto istante in cui il suo cuore smise di battere, la Nemesi era entrata nel suo corpo, invisibile a tutti: nessuno si era reso conto che quella persona, zuppa di pioggia fino al midollo, era morta e che il suo corpo era ora posseduto da un ospite: il tutto era durato pochi minuti. E, così come si era improvvisamente fermato poco prima, tanto improvvisamente l'uomo ricominciò a camminare.

sabato 6 ottobre 2007

6 agosto, 62 anni dopo


Il 6 agosto, compie gli anni il mio amico Luis.

Il 6 agosto, però, 62 anni fa, una bomba atomica chiamata in codice Little Boy veniva sganciata dal B-29 statunitense "Enola Gay", sulla città di Hiroshima in Giappone, alle 8:16 di mattina (ora locale). Esplose ad un altitudine di 576 metri con una potenza pari a 12.500 tonnellate di TNT uccidendo all'istante 80.000 persone (altre 60.000 moriranno entro la fine dell'anno a causa delle malattie causate dal "fallout" nucleare) e distruggendo circa l'80% dell' area edificata della città.

Ricordo una ragazza giapponese, conosciuta su Icq, un programma per chattare, parecchi anni fa. Non ricordo il suo nome, ma ricordo che mi aveva mandato una sua foto, ed era anche abbastanza carina: aveva un kimono rosso, era in un giardino e rideva mentre cercava di coprirsi il volto con una mano.
Una pomeriggio caldo d'agosto, mi aveva raccontato che suo nonno era sopravvissuto all'attacco di Hiroshima, quando era poco più che un ragazzo, e quella storia mi è rimasta ben fissa nella memoria.

Era al primo anno di università, suo nonno. Era a scuola, in cortile. L'allarme anti-aereo aveva suonato circa una mezz'ora prima, ma era poi subito rientrato: i professori avevano dato il permesso agli studenti di tornare all'aria aperta, e lui stava parlando con alcuni amici sotto una pianta. La scuola che frequentava, si trovava a circa 2 km di distanza dal punto nel quale venne sganciato l'ordigno nucleare: ricordava, perfettamente, la scia bianca lasciata dal bombardiere che aveva sorvolato la città, come un puntino lontano ma perfettamente distiguibile. Non si era chiesto come mai un aereo "nemico" si era palesato così all'improvviso, nonostante l'allarme fosse rientrato. Non ce n'era stato il tempo. Il suo corpo era stato scaraventato a una decina di metri di distanza, senza poter opporre resistenza. Aveva perso i sensi, forse, poi si era rialzato e sentiva un formicolio dappertutto. C'era fumo dappertutto, ma non sentiva urla. Era un silenzio quasi agghiacciante. Solo qualche minuto dopo, aveva cominciato a rendersi conto di cosa era successo: tutti i suoi amici, come lui, erano stati scaraventati a distanza. Ma la cosa sconvolgente non era quella: guardandosi, si era reso conto di essere praticamente nudo. I vestiti erano bruciacchiati, fusi, distrutti: la pelle faceva male, in alcuni punti era staccata dal corpo, fino alla carne. non faceva male, aveva raccontato alla nipote, ma era uno spettacolo raccapricciante. Un suo amico, piangeva: senza dire una parola lo aveva sollevato e insieme si erano avviati verso le macerie della scuola. Camminando, aveva guardato Hiroshima, o meglio, aveva guardato verso il punto in cui, poco prima, esisteva Hiroshima. Tre quarti della città non esistevano più.
E a quel punto, aveva pensato a sua madre, e sua sorella.

Qui, il racconto della mia amica si era interrotto. Non mi ha mai raccontato il resto, cosa era successo dopo. Non ho enfatizzato le sue parole, le ho riportate semplicemente come le ricordo. Nel suo cuore erano impresse queste immagini, passatele dalla memoria viva dal nonno: lei le ha poi trasferite nel mio.

Il 6 agosto, l'uomo si è mostrato per quello che è?

Buon compleanno.

sabato 29 settembre 2007

Grecia - Italia


Sono quasi due mesi che non aggiorno il blog. Tra l'ultimo post e questo c'è stata la vacanza in Grecia, l'allestimento della nuova camera a Torino, l'inizio delle lezioni.

La Grecia è servita per due motivi principalmente: dovevo scrivere un racconto e trovare la risposta a una fondamentale domanda. Il racconto ha preso forma, è scritto sul compagno di viaggio elettronico e tra poco, dopo una rilettura e "sgrassatura" potrà essere letto da chi avrà voglia di dare un giudizio. Inoltre ho posto le basi per altri tre racconti (l'ispirazione, su un'isola greca circondata da mare e nulla, non so come ma viene).
I protagonisti dei racconti, per chi volesse un'anticipazione:
- un uomo che ha salvato il mondo
- un avvocato e la nemesi di un suo amico
- un ostaggio
- un folle
La domanda che aveva bisogno di risposta, è stata sciolta, analizzata, frammentata, negata, odiata, ma alla fine è stata risolta, brillantemente direi. Quindi sono un po' più felice di prima.

Ecco, questo è il "resoconto", in breve, dell'estate.
Avrei voluto, se fossi stato qua, scrivere un post sul V-day di Grillo, ma ormai è tardi. Vorrei scrivere quello che penso, inoltre, su grandi temi vari, tra cui la caldissima attualità della Birmania, ma risulterei banale. Non mi piace riempirmi la bocca di luoghi comuni.
Quindi due banalità sportive, che sono permesse: sono innamorato di "Ibracadabra" (pagato 170 milioni al fantacalcio, un investimento no?), e in Grecia ho capito cosa vuol dire, guardando il basket, amore per una nazione. Centinaia, anzi migliaia di Greci, in strada, a guardare le partite su televisori al plasma, esultavano come un gol di Materazzi in finale di coppa del mondo per ogni canestro degli azzurro-crociati. Poco importa poi, se alla fine sono arrivati quarti. Due nomi, tra tutti: Papalukas e Diamantidis, due giocatori formidabili, oltre al mio preferito in assoluto Spanoulis (ha il cognome simile al mio, e ogni tanto mi capita di "immaginarmi" al posto suo, a comandare l'attacco ellenico).

Una promessa a me stesso: maggiore impegno, per tutto, blog compreso.

P.s. Nick, uno dei miei scrittori preferiti, sostiene che nn si possono ascoltare per anni canzoni d'amore, di sofferenza, di ricordi e nostalgia, senza subirne profonde conseguenze. Meledetti Sigur Ros.

martedì 14 agosto 2007

Lacrima


Una lacrima che scende, mentre sei a letto e ripensi a quello che stai facendo, provando, decidendo, giorno dopo giorno, non verrà mai vista da chi l'ha provocata, e nemmeno da chi avrebbe potuto consolarla.
Nei film è tutto più facile: è vero, anche nella finzione cinematografica il protagonista è solo col suo dolore, coi suoi dubbi e le sue paure, però ha centinaia di occhi che lo guardano attraverso lo schermo, occhi che si commuoveranno e proveranno forte empatia, per qualche secondo. Tutto ciò renderà la scena fortemente emotiva, il suo dramma interiore, qualunque esso sia, trarrà significato proprio da tutto ciò.
Se invece sei solo, a casa tua, nel letto, fissi il buio rigirando il cuscino sotto la testa, stropicciando le coperte sperando che il sonno ti rapisca per portarti nel confortante mondo dei sogni, ma quel maledetto si diverte a farti attendere, beh quella lacrima figlia dei tuoi pensieri non la vedrà nessuno, se non il tuo cuore triste, rendendoti ancora più consapevole di quanto si è soli, in quei momenti.

Quanto è stupida e banale, la mia lacrima finale, cantavano i Perturbazione, citando i Belle and Sebastian. Mi viene in mente questa canzone, mentre asciugo via la lacrima e mi rigiro nuovamente nel letto, prendendo a pugni un'altra ora di sonno perso

martedì 17 luglio 2007

Ricordo


Mi è tornato in mente questo pensiero, del grande Stefano Benni.

"Quanti Cristi inchiodati a una sedia, o a un letto, la gente scavalca, per inginocchiarsi di fronte a un cristo di legno.
Quanti sacrifici dimenticati, per ricordarne uno solo. Se mi facessero entrare in una chiesa, griderei: smettetela di guardare quell'altare vuoto, adoratevi l'un l'altro!"

Volevo condividerlo, tutto li.


Per chi volesse una piccola iniezione di emozioni: l'ultimo singolo degli Editors.

lunedì 2 luglio 2007

In questo mondo di Gossip


Una giornalista "con le palle" americana, tale Mika Brzeiznski, si è rifiutata di aprire il telegiornale che da anni conduce, leggendo una notizia riguardante la divetta Paris Hilton. Il motivo? Molteplice, sicuramente: in una giornata in cui c'erano state decine di vittime per un'autobomba in medio-oriente, in cui la politica americana era in fermento, la nostra non aveva intenzione di aprire il notiziario con una notizia-spazzatura; inoltre, credo, da persona colta e professionale ne aveva le palle piene.
Bene, il gossip piace a tutti, chi lo nega: io stesso, quando sono in coda per farmi tagliare i capelli, sfoglio i giornali patinati, e ogni tanto mi concedo una o due battute alla fermata del pullman circa le scappatelle di questo e quell'altro.
Però provo schifo e malumore, quando in un telegiornale che ha la pretesa di essere "serio", non si fa altro che parlare di culi, veline o delle varie Gregoraci e Lecciso. Il fenomeno è iniziato con quel porcile che è studio-aperto (non mi dilungo su quanto odio Silvia Vada e tutte le stupide analfabete che lavorano per questo telegiornale, perchè potrei andare avanti per giorni senza ripetermi), ma poi ha prontamente invaso anche il telegiornale di canale 5, e anche la Rai poco a poco si sta adeguando. L'equazione è semplice: il gossip tira molto di più della politica e dell'informazione "seria", quindi in un'era in cui è vendere la pubblicità che conta, sono gli ascolti da portare a casa, non tanto la qualità del prodotto.
Io non ci sto, e non penso che la soluzione sia tanto difficile da trovare: credo che siano molti i giornalisti, anche in Italia, che la pensano come la brava Mika americana. Non penso si possa criticare l'"utente", che fruisce di questa tv-spazzatura, quando le alternative vere e proprie non ci sono.
Sono loro, i direttori dei giornali e dei tg, che decidono la qualità dell'informazione: se questi personaggi, che hanno un potere immenso spesso sottovalutato dall'opinione pubblica, sono fantocci che pensano soltanto al guadagno e vogliono infilarci in testa soltanto porcherie, bene, non sarebbe ora che questi giornalisti dipendenti si ribellassero, rifiutandosi di leggere, pubblicare, commentare, diffondere certe notizie? O per lo meno riservassero loro lo spazio che compete loro, ovvero veri e propri programmi di gossip, eliminando l'imbarazzante abbinamento che si viene a creare, quando una notizia sull'ennesimo atto di terrorismo viene affiancata (o addirittura preceduta) dal nuovo amore di Elisabetta Canalis.
Ci vuole lavoro e fatica, per diventare un giornalista professionista, ne so qualcosa anche io: penso che per chi ha lavorato duramente per giungere finalmente ad avere quel tesserino, abbia a cuore l'informazione e sia scandalizzato di fronte a questa situazione, creata da scelte di pochi.
Avanti, ribellatevi. Solo così scriverete il vostro nome nella storia del giornalismo.

P.s. Per chi volesse vedere il video di Mika Brzeiznski, clicchi qui.

venerdì 15 giugno 2007

Carte angeliche


Mia madre ogni tanto se ne esce con una nuova. Questa volta si è comprata un set di piccole carte quadrate, grandi più o meno 5x5 cm, sulle quali sono scritte delle piccole "risposte" in lettere dorate. Le carte delle risposte degli angeli, ha detto che si chiamano, o qualocosa del genere, adesso non ricordo.
In pratica funzionano così: tu metti la tua mano sinistra sulle carte, pensi intensamente a una domanda che ti corrompe il cuore e intasa i pensieri, poi prendi una carta, e la risposta al tuo problema sarà scritta li sopra. Dice che funziona. Sarà.
Superato lo spontaneo rifiuto per questo genere di cose, ho però deciso di provare, un giorno che ero solo in casa, a porre qualche domanda alle fatidiche carte: volevo cominciare con qualcosa di semplice, e nel caso in cui fossi rimasto soddisfatto, avrei approfondito la conoscenza sullo scibile umano, grazie a questo potentissimo mezzo!
Ecco le prime domande che mi son venute in mente, e che ho sottoposto alle carte:

1) La amo?
2) Ho fatto bene a lasciare ingegneria per passare a psicologia?
3) L'inter vincerà lo scudetto anche il prossimo anno?
4) Sono felice?
5) Dio esiste?

Ecco le risposte fornite dalle carte:

1) credi nel tuo sogno
2) continua nello scopo
3) è amore
4) sei guarito
5) riceverai un regalo

Il tutto mi ha lasciato confuso: è amore, ad esempio, poteva essere la risposta alla domanda numero uno, più che alla tre (per la quale un "credi nel tuo sogno" ci sarebbe anche stata bene). Forse, essendo le risposte oscure, esse vengono assegnate in ordine sparso, ho pensato. O forse ero stato vago, forse dovevo essere più preciso nel quesito: dunque ho deciso di porre una domanda meglio definita, del tipo: farei bene a sterminare la mia famiglia, a fare a pezzi i cadaveri, darli in pasto a qualche animale selvatico, poi unirmi al gruppo separatista basco e collezionare gusci di noci provenienti dai quattro angoli del mondo per poi venderli a un miliardario arabo e col ricavato costruire una flotta di missili per abbattere i satelliti delle principali televisioni mondiali e creare così un regno di caos e disinformazione?
La risposta è stata: fai entrare in te il divino. Difficile interpretazione, direi.

mercoledì 6 giugno 2007

Imprevisto


Una premessa: il post che state per leggere, se volete leggerlo, non mi piace.
L'ho postato perchè l'ho scritto, e ho deciso di non buttare più nulla di quello che scrivo, almeno non ciò che scrivo che superi le 20 righe. Magari un giorno, rileggendole, riuscirò a cavarne qualcosa di buono.

Mi chiamo Micky (si legge Maichi), e il vampiro ha ripreso a vivere in me. Non penso fosse un caso che quel giorno mi trovassi proprio in quella frequentata aula studio, dove si ritrovano ragazzi di tutte le età per consumare i propri sforzi applicativi ma soprattutto per solidarizzare su un probabile insuccesso all’esame di turno. Ero seduto al mio posto, in un angolo, per non venire disturbato in continuazione dalle parole e dalle risatine inconsistenti della massa inebriata dai primi vagiti di un’estate ancora troppo debole per nascere completamente. Le cuffie nelle orecchie mi impedivano di sentire i loro discorsi bisbigliati, quando di tanto in tanto alzavo la sguardo dal mio libro per osservare qualcuno, a caso. Spesso in queste situazioni mi era capitato, altre volte, di immaginare nella mia testa evoluzioni dei fatti inattese: ogni tanto il protagonista del mio flusso mentale era uno squilibrato, che si alzava dalla propria sedia al centro della sala e, dopo aver estratto una pistola celata nello zaino, scaricava il suo disagio post adolescenziale sulla ragazza seduta poco lontano, sotto forma però di qualche dozzina di proiettili. Se ero fortunato in uno di questi flash io stesso venivo colpito accidentalmente da un colpo vagante, e a seconda dei casi agonizzavo a terra per qualche istante, prima di spegnermi definitivamente e tornare a studiare, oppure eroicamente, tenendo una mano sulla parte ferita, mi lanciavo sul folle atterrandolo e disarmandolo, tra gridolini di approvazione e giubilo, e conati di vomito trattenuti.
A volte invece guardavo attentamente le espressioni delle ragazze intente a studiare, quelle che hanno 30 e lode stampato in faccia dalla prima elementare, e mi chiedevo, scrutando le loro espressioni contrite dagli sforzi di uno studio folle e disperatissimo, come queste stesse espressioni si sarebbero potute mutare, nel momento dell’amplesso sessuale. Mi è capitato di pensare, lo ammetto, che certe figlie di papà vorresti davvero portartele a letto solo per vedere come sono capaci di godere: se si mordono le labbra, se chiudono gli occhi trattenendo il respiro o se urlano come ossesse, nell’attesa del colpo finale.
Quel giorno invece avevo in mente di ucciderne una, per vedere che effetto facesse. Era tardi, saranno state le nove, l’aula studio andava svuotandosi sempre più velocemente, e tra coloro che rimanevano avrei dovuto scegliere la mia preda, per placare la sete curiosa del vampiro che, da semplice interrogativo stupido nato tra una pagina e l’altra, rischiava di diventare ossessione capace di impedirmi di preparare l’esame di antropologia culturale.
La vidi seduta ad un tavolo da sola, mentre ripeteva chissà quale lezione tenendo due dita sulla bocca e guardando in alto. Era bionda, truccata lievemente e pareva essere a suo agio vestita con una maglia porpora e dei pantaloni verdi. Non l’avevo scelta però per il pessimo accostamento cromatico, ma per la collana semplice e dorata alla quale era assicurato un cuore in argento. Anzi, un mezzo cuore d’argento: come quelli che si regalano i fidanzatini alle superiori, scambiandosi eterne promesse d’amore. La scelta era condizionata dal fatto che, se avessi dovuto uccidere qualcuno, questo qualcuno avrebbe dovuto aver il maggior numero di legami possibili: il funerale sarebbe stato grandioso, formidabile per il numero di presenti e per il dolore collettivo accumulato.
La studiai per una buona mezz’ora, cercando di carpire il maggior numero di informazioni necessarie per il mio scopo: teneva il telefonino sul tavolo di studio e ogni tanto gli dava una sbirciata veloce, quasi impercettibile; forse aspettava qualcuno che la venisse a prendere (il proprietario dell’altra metà del suo cuore?) oppure semplicemente controllava l’ora. Era certo però che qualunque fosse il motivo, tra poco sarebbe andata via, e non avevo ancora un piano preciso d’azione: non potevo lasciare che il caso guidasse le mie azioni, perché altrimenti avrei rischiato di rovinare tutto, e trasformare un semplice esperimento in una tragedia ingestibile.
Ad un certo punto si alzò, cominciando a radunare ordinatamente nello zaino le proprie cose: il mio cuore cominciò a martellare, sempre più forte: avrei potuto desistere dal mio scopo, ma ormai c’ero troppo dentro per tornare sui miei passi. Scaraventai nella borsa il libro dal quale stavo studiando, senza mettere un segno al punto al quale ero giunto: aspettai che uscisse e poi le andai dietro. Alla prima traversa girò alla sua destra, scomparendo alla mia vista: affrettai il passo e la vidi attraversare la strada, camminando senza voltarsi in direzione dell’incrocio principale. Le stavo dietro, qualche decina di metri ci distanziava, nell’attesa che i miei muscoli scattassero e che l’adrenalina facesse il resto. Mi rendevo conto che la vittima scelta dal caso per il mio esperimento, man mano che procedeva, accelerava il passo: mi aveva visto? Aveva capito le mie intenzioni? Era impossibile, ma non volevo comunque correre rischi. Attraversai nuovamente la strada, per depistarla, rimanendo però sulle sue tracce. Svoltò nuovamente in una via laterale, le andai dietro facendo finta di parlare al telefono, quasi per rassicurarla. Non volevo si spaventasse: volevo ucciderla, ma non ci vedevo nulla di sadico in tutto ciò e non volevo provocare effetti collaterali in lei. Estrassi un coltello dalla tasca: uno di quei coltelli svizzeri che venivano pubblicizzati a metà degli anni novanta, utilissimi se devi aprire una bottiglia di birra, sbucciare una mela, incidere un banco, o accoltellare una sconosciuta. Decisi che era il momento di agire: era tardi, non c’era nessuno in giro, la via era stretta e poco illuminata. Camminai più velocemente, ero a pochi metri da lei, quando improvvisamente si fermò, si accostò ad una macchina, e cominciò a cercare nella borsa qualcosa, forse le chiavi. Questa sua manovra improvvisa mi ghiacciò il sangue nelle vene, ma non lasciai trapelare alcuna emozione. Mi avvicinai a lei, stringendo nella mano sinistra la lama: ero a pochi passi da lei, poi la vidi estrarre un oggetto nero, luccicante. Non cercava le chiavi, in mano aveva una pistola. Si voltò, per la prima volta i nostri sguardi si incontrarono. Esplose un colpo, un secondo, forse anche un terzo. Ad ogni sparo socchiudeva gli occhi: non era abituata a far fuoco contro uno sconosciuto, pensai. Sentii i proiettili colpirmi all’addome, guardai le ferite allargarsi sulla maglietta nuova che indossavo per la prima volta, quel giorno.
Caddi a terra, confuso. Dalla macchina, dal posto del guidatore, scese un tizio, non l’avevo visto prima. I due si guardarono, poi guardarono me. “Apri il bagagliaio”, lui le disse, mentre io a terra, inerme, guardavo il cielo sbavato dalle luci cittadine, impossibilitato in ogni più piccolo movimento. Ogni respiro aveva il sapore metallico del sangue.
Mentre lei eseguiva l’ordine, lui mi sollevò da terra, quasi fossi un sacco vuoto, e mi depose con cura all’interno del baule: era ampio e pulito. Chiusi gli occhi, deglutii, e vidi l’uomo guardarmi senza emozioni. La ragazza era seduta in macchina, che aspettava. Dopo aver sigillato il bagagliaio, l’uomo si sedette nuovamente alla posto di guida e mise in moto.

Sentivo la strada correre sotto di me, ogni dosso era un sobbalzo. Sorrisi, nel buio del baule: ero tornato a essere vampiro, non potevano uccidermi con qualche colpo di pistola. Sciocchi.
La macchina filava veloce nella città. Cercai di dormire un poco, mentre il mio cuore rallentava.

martedì 29 maggio 2007

La moleskine è più importante


Questo blog rubava troppo tempo alla mia moleskine. Per questo ho “allentato”. Devo ammettere che ho anche ipotizzato, per qualche ora, di chiuderlo definitivamente, parlando della pioggia, come avevo iniziato. Poi ho riletto alcuni dei post più vecchi, mi sono un po’ commosso, un po’ ho sorriso, e ho deciso di lasciar perdere con i miei intenti blog-icidi per un po’, almeno.
Non succede molto nella mia vita ultimamente, ho fatto delle riflessioni e ho diversi spunti che andrebbero approfonditi. Alternerò uno spunto serio a uno più leggero.

Il primo è politico: la sinistra non ha ancora capito che l’abbiamo votata soltanto per mandare a casa Berlusconi: non hanno davvero capito che il loro unico scopo, prima dell’inevitabile auto-distruzione, è quello di fare leggi alla Zapatero, promesse in campagna elettorale, di porre dei limiti ai futuri abusi della politica, e poi morire. Non lo capiscono, parlano a vanvera di argomenti ogni giorno diversi, e mi mettono in imbarazzo. Sono in imbarazzo perché io li ho votati, ho contribuito a mandare al governo personaggi vecchi e schifosi. Porci che si strafogano nella ciotola di turno, sculettando gli enormi posteriori ben attaccati alle poltrone. Pensavo fosse la destra il problema, mi sbagliavo: il problema è la classe politica, nel suo complesso: vecchia e incapace di atti di forza. Lo stesso succede nel piccolo centro in cui abito io: i “politici” non pensano al bene della città, ma compiono “voti politici”. Ma cosa cazzo state dicendo? Voti politici? La proposta del tal partito era anche intelligente, ma siamo avversari politici, quindi ci tocca votare contro. E così succede che il centro sinistra vota per un rifinanziamento delle missioni militari, mentre il centro-destra vota contro. Patetico.

Ho pensato a un racconto, lo svilupperei se avessi l’ispirazione. In pratica mi chiedevo come mai riteniamo sempre che il mondo sia nostro. Si, beh, di noi umani. Se si calcola in termini di unità, noi siamo quasi sei miliardi, un bel numero, però le formiche ad esempio sono molte di più. Quindi un’ipotetica entità aliena, che decidesse per qualche prepotente motivo di insediare il globo, dovrebbe preoccuparsi maggiormente delle formiche che di noi, per quel che ne sanno. Dunque avevo ideato questo racconto in cui migliaia e migliaia di microscopiche astronavi atterravano per conquistare il mondo, affrontando in una battaglia senza quartiere le unità belliche del micro-cosmo. Mentre noi, umani, nemmeno ci rendevamo conto di nulla: il destino del nostro pianeta affidato a esseri che noi nemmeno consideriamo degne di vita, spesso. L’idea mi pareva buona subito, però adesso rileggendola forse non è il massimo. Cambia pusher.

L’inter è e rimane la prima squadra di milano, se non la prima squadra d’Italia. Lo dimostra lo striscione dei diavoli rossoneri, appena eletti neo campioni d’europa. Il fatto che il primo pensiero che sia sopraggiunto nelle menti di giocatori e tifosi, dopo il triplice fischio di atene, sia stato ai cugini nerazzurri, dimostra quanto rodesse il loro blasonato fondoschiena, per la scoppola ricevuta in campionato. Perché loro il campionato non l’hanno giocato, a differenza di molte altre squadre europee che partecipavano alla Champions League. Bella forza poi, se la vinci.
Ognuno nella vita si pone degli obiettivi: loro volevano l’europa, e hanno giocato per l’europa: bravissimi; noi interisti volevamo lo scudetto che mancava sul campo da un paio di decenni, e l’abbiamo vinto: bravissimi. Ognuno si goda i propri successi, e non rompa il cazzo agli altri, per piacere.

Molto bello l’ultimo singolo dei Travis, consigliato a tutti.

Ultima considerazione, un po’ amara forse: siamo tutti portati a credere che alla fine, tutto andrà bene. Io per primo sono sempre stato convinto che prima o poi, in un modo o nell’altro, i sogni si sarebbero avverati. Beh, ho iniziato ad avere l’ambizione di diventare un giornalista barra scrittore barra fotografo qualche anno fa, e devo dire che di strada un po’ ne ho fatta: ogni tanto qualcuno mi telefona per far dei servizi fotografici, da tre anni figuro nella redazione d un giornale (locale, ma sempre giornale è) e ho iniziato un paio di libri e racconti di cui son soddisfatto, e aspettano solo l’ispirazione per andare oltre. Beh, però il mondo non riconosce mai nulla di tutto ciò che si fa. E quindi i sogni che dovevano avverarsi non si avverano, e forse un giorno sarò anche io come quelle persone che a 35 anni sono ancora li a chiedersi cosa fare della propria vita. Io perché sono diverso da loro? Perché per la teoria delle attribuzioni, credo forse che sia demerito loro, se non ce l’hanno fatta. Invece non è sempre così. La vita ti incula, bello, se non sei pronto a incularla per primo.

lunedì 30 aprile 2007

Pantheon


Il nascente partito democratico ha deciso di produrre, per dare una linea guida precisa ai propri intenti, una specie di "Pantheon" nel quale inserire quei personaggi di riferimento dai quali trarre ispirazione.
Visto che stamattina ho ascoltato la radio, in ufficio, e Linus e Nicola a "Dj chiama Italia" si sono divertiti a stilare l'elenco di personaggi che potrebbero appartenere al proprio personalissimo Pantheon di ispirazione, ci provo anche io. Le regole sono semplici, 5 personaggi, che con la loro vita e le loro "gesta", rappresentino un modello al quale ciascuno di noi ambisca in qualche modo, sia come modello, sia come fonte di ispirazione.

1) Ettore di Troia - perchè è l'eroe "secondario" per eccellenza. Non aveva i capelli biondi, non pensava molto alla cura del corpo, non partecipava a ricevimenti o a feste mondane: la sua unica ambizione era proteggere sua moglie, suo figlio, e la terra di cui era innamorato. Concreto, serio, sensibile, ha avuto la morte tragica e coraggiosa di cui parlavo tempo fa. E per questo ha tutta la mia stima.

2) Fabrizio De Andrè - Banalmente, perchè dopo aver letto la sua biografia, mi ha colpito la leggerezza con cui ha vissuto, mista alla profondità dei suoi pensieri: una persona che sapeva colpirti semplicemente stando in silenzio, tanto era imponente e ingombrante la sua presenza. Ha scritto testi meravigliosi, senza essere mai banale, retorico o scontato. Una sigaretta accesa e uno sguardo triste fuori dalla finestra, con "le dita che terminavano in una chitarra".

3) Stefano Benni - Cito questo autore nel mio personalissimo Pantheon poichè è grazie all'incontro casuale con le sue opere che la mia vita di "adolescente" è cambiata radicalmente: da massificato e ignorante tredicenne, immerso nella banalità del commerciale, ho cominciato a interessarmi a un mondo sempre più "underground" proprio dopo aver letto alcune delle sue divertentissime storie. "Comici spaventati guerrieri" è il primo libro che ricordo aver letto di Benni, e da allora è cresciuta in me la voglia di differenziarmi dalla massa, di fare un salto fuori dal cerchio. E forse anche la celata ambizione di diventare anch'io, un giorno, uno scrittore.

4) Marco Materazzi - Ero indeciso se mettere o meno un personaggio sportivo nel mio Pantheon personale, ma se la risposta fosse stata affermativa, la scelta non poteva che ricadere sull'anti-eroe per eccellenza. Denigrato, insultato e criticato da tifoserie lungo tutto lo stivale e da molti degli addetti ai lavori, ha toccato poco prima dei mondiali tedeschi il fondo: relegato in panchina nell'Inter, convocato in nazionale con dubbi e incertezze dei più. Poi la svolta: il titolare si infortuna, lui entra e il suo sogno diventa il nostro: campione del mondo, con due reti e personalità da leader. L'anno successivo stra-vince con l'Inter, ma soprattutto riconquista la dignità personale con l'atteggiamento del professionista maturo, finalmente se stesso. L'emblema del brutto anatroccolo che diventa cigno.

5)Audrey Hepburn: Perchè una parte di me avrebbe sempre voluto essere donna, e se fossi stato donna lei sarebbe stata inevitabilmente la mia musa. Bella, semplice, leggermente paranoica, intelligente, capricciosa. Aveva bisogno soltanto di uno sguardo per avere tutti ai propri piedi, così distante dalle "finte-belle" di oggi che quasi sembra un'aliena. In un mondo nel quale il prototipo di bellezza sta diventando una come Elisabetta Gregoraci, il mio riferimento è un tributo nostalgico, bella proprio perchè eccezione.


Stanno fuori alcuni personaggi che hanno perso il ballottaggio per pochi punti, o per incopatibilità con il mio intento. Che Guevara ad esempio, non il Che politicizzato, ma quello de "I diari della motocicletta", avventuriero e nomade (a proposito, per chi fosse interessato, tra un paio d'anni ho intenzione, insieme al mio amico Luis, di ripercorrere il viaggio del giovane Che Guevara in motocicletta, girando il sud-america e riscrivendo una sorta di mio personale diario. Spero che tutto ciò si realizzi e non rimanga come sempre un sogno irrealizzato). Sono rimasti poi fuori una serie di fotografi che ho conosciuto soprattutto negli ultimi anni, perchè citarli tutti era impossibile e nessuno di essi era più significativo degli altri; alcuni scrittori, cantautori, psico-analisti o terapeuti, alcuni intellettuali, filosofi e qualche artista. magari un giorno approfondirò il discorso.

E ora a voi: quali sono i vostri personaggi di riferimento, che meritano di essere citati nel vostro Pantheon? ditemelo.

sabato 14 aprile 2007

Una generazione rubata


Ci vorrebbe una lunga premessa, per poter esprimere il vuoto che ho dentro.

La premessa potrebbe consistere in questo: le popolazioni native australiane sono state, dopo l'occupazione "occidentale", costrette a una forzata civilizzazione. Essa era orientata principalmente alla cancellazione del tratto "indigeno" dai figli meticci, nati da relazioni spesso clandestine tra bianchi e neri: stimatissimi studi dimostravano infatti che, generazione dopo generazione, tramite il susseguirsi di incroci di questi "mezzi-sangue" con partners puri, il gene "scuro" veniva cancellato completamente.
Tramite un piano su larga scala, bambini meticci venivano letteralmente strappati dalle braccia della propria madre e dalla certezza della propria cultura, e scaraventati in centri specializzati, dove avrebbero potuto venire educati, fatti "progredire" al livello dei bianchi.
I responsabili di questa che a noi può sembrare una vera e propria follia, siamo noi.

Questa è la premessa.
Il senso di vuoto da dove nasce? Nasce dal fatto che le migliaia di suore, missionari e "ben disposti" che avevano messo in piedi questo meccanismo (si, erano in gran parte suore e preti, non c'è da stupirsi in fondo) erano convinti e decisamente sicuri di AIUTARE queste persone, questi bambini a trovare una strada, un futuro. Mentre probabilmente, l'unica cosa che veramente i nativi, meticci e no, volevano, era di poter vivere nel proprio territorio, seguendo il proprio istinto naturale, assaporando a pieni polmoni la cultura di cui erano pregni.

E io in tutto questo cosa centro? Centro eccome: chi mi dice che le missioni di volontariato alle quali probabilmente parteciperò nei prossimi anni non siano una simile forma di repressione? Loro, gli altri, vogliono davvero essere aiutati da noi "occidentali"? Ne hanno davvero bisogno o sono anche io come uno di quei missionari che avevano la presunzione di aiutare, mentre l'unico risultato che ottenevano era l'inesorabile annientamento di una cultura millenaria?

Per chi volesse saperne di più, consiglio la visione del film "La generazione rubata". Capirete cosa intendo.

lunedì 26 febbraio 2007

Tramonto


Cammino a testa bassa, trascinando lo zaino e la borsa della spesa, al centro di via Garibaldi, a Torino. Sono da poco passate le diciotto, forse le diciotto e un quarto: le mura della città, a quest'ora, si impregnano di un rosso mai rassegnato a trasformarsi in tenebra, mentre la gente, che si affretta a rimettere i piedi in casa, cammina rapida, evitando scontri frontali per un soffio.
Il pullman numero 4 mi ha appena vomitato alla fermata, insieme a molti altri sconosciuti e a un ragazzino non più vecchio di dieci anni, scappato con un portafoglio stretto nella destra: l'ho guardato sgusciare via come il vento, voltarsi e sorridere nella mia direzione, forse sfidandomi, forse no. Sono combattuto per un attimo: potrei corrergli dietro, e diventare un eroe. Vince però la voglia di tornare a casa: ho ancora cena da preparare, il mio corpo ha un inusuale bisogno di una doccia.
Mi avvio a passo svogliato, quando a trenta metri circa, la vedo. Bella, nella sua giacca nuova, bianca come il latte, una ragazza forse di poco più giovane di me, mi viene incontro: il suo passo è deciso, si guarda attorno come una modella sulla passerella, durante la settimana della moda milanese. Ha un paio di occhiali da sole grandi, che le coprono gran parte del viso, e sembra essere a suo agio nonostante la luce del sole sia ormai un ricordo, e la ricca via torinese sia illuminata soltanto dai lampioni gialli, appesi stancamente alle pareti settecentesche. Con la mano destra sorregge, aggraziata, una borsa non firmata: le gambe si intravedono, fasciate da calze probabilmente autoreggenti nere, proprio dove termina la gonna, poco sotto il ginocchio. La ragazza angelo termina in un paio di stivali marroni, di quelli che si vedono nelle vetrine di via Roma, alla moda, ma la moda che non stanca. La guardo, e come sempre in questi casi, il tempo rallenta, e tutto è più lento: i suoi lunghi capelli neri, che spuntano al di sotto di un cappellino alla francese, svolazzano mentre cammina e volta lo sguardo nella direzione di un'altra vetrina illuminata. La osservo, e lei, ad un certo punto, mi nota: non riesco a vedere i suoi occhi, dietro gli occhiali scuri, ma siamo ormai a pochi metri, e un sorriso appena accennato si disegna sul suo viso perfetto, mentre la linea immaginaria che collega il mio sguardo al suo, non si spezza. La via, improssivamente, è deserta: esistiamo soltanto io e lei, esseri diversi che camminano in direzioni opposte.

Sento lo sparo, che infrange il silenzio nella mia testa, proprio quando sto per raggiungerla: mi brucia improvvisamente il collo sul lato sinistro: mi fermo, e dopo che istintivamente ho portato la mano nel punto in cui mi ha colpito, la vedo poi ricoperta di sangue. Ma non abbastanza: il proiettile infatti mi ha sfiorato, ha dilaniato la mia pelle e pochi millimetri di carne, per poi procedere oltre. Mi volto, stranamente tranquillo, e vedo il ragazzino che poco prima era sceso dal pullman, corrermi incontro, qualche decina di metri più indietro, con il portafoglio ancora in mano. Il suo sguardo da beffardo è ora mutato in spavento: due uomini gli vengono dietro, vestiti di nero, uno di essi stringe una pistola fumante nella mancina.
Mi volto nuovamente, con sorpresa: il proiettile che mi ha aperto una lunga cicatrice sul collo, ha terminato la propria corsa nel cuore della ragazza. Sulla sua giacca nuova, bianca come il latte, si sta lentamente aprendo una chiazza rossa, intorno a un foro non più grande di una moneta da cinque centesimi. Lei si è fermata, ha l'espressione di una bambola di porcellana. La borsa è caduta a terra, le sue braccia sono staccate dal corpo, indecise. Improvvisamente cade in ginocchio, sospira leggermente, solleva lo sguardo verso il cielo e si inclina pericolosamente in avanti. Io, che fino a quel momento ero rimasto immobile a guardarla, mi butto in ginocchio davanti a lei, e con il mio corpo interrompo la sua caduta: la afferro tra le braccia, le sostengo il viso, e le sfilo gli occhiali da sole, buttandoli a terra. La sento fragile, indifesa, leggera. Il ragazzino ci sfreccia di fianco, per un secondo butta uno sguardo su di lei, per poi continuare la sua fuga, cercando di confondersi tra la gente; i due uomini neri sopraggiungono poco dopo, ma non si curano di noi: pensano solo al fuggitivo.
Lei respira debolmente, ha gli occhi chiusi, i capelli che le coprono parte del viso: un rivo di sangue le spunta all'angolo sinistro della bocca perfetta, disegnando un a piccola S rossa tra la guancia e il mento. Le sposto i capelli dal viso, lei apre gli occhi, che come avevo immaginato sono verdi, grandi e leggermente orientali. Le sorrido.
Mi guarda, con aria innocente, non credo si capaciti che la vita sta scivolando via dal suo corpo. "Credevo sarebbe stato diverso", mi dice. Tossisce appena, il sangue ha ormai inzuppato la giacca bianca: faccio scivolare la cerinera di qualche centimetro, perchè non le stringa il collo, le accarezzo i capelli, mentre la sorreggo. "Come ti chiami?", le chiedo, mentre la appoggio al mio braccio destro, perchè stia più comoda, in questi ultimi minuti. "Giulia, mi chiamo Giulia", mi risponde. Il respiro si fa un poco più pesante, ha un fremito, le sue mani stanno diventando fredde. "Son contento di averti conosciuta, Giulia", le dico, e la bacio: la bacio sulla bocca, con gli occhi chiusi, il sapore metallico del sangue mi invade il respiro, mentre le sue labbra morbide incontrano le mie. Il suo respiro è caldo, silenzioso. Immagino per un attimo il proiettile che la ucciderà, sporco del mio sangue che le riposa a pochi centimetri dal cuore. Mi stacco da lei, riapro gli occhi, e vedo una lacrima scendere lenta lungo l'occhio sinistro, ancora più grande e bello: è ormai immobile, tra le mie braccia.
Morta.
La stringo ancora una volta a me, le richiudo la cerniera della giacca, la bacio sulla fronte, la adagio a terra, e mi rialzo.
Mi accorgo che intorno a noi si è riunito un nugulo di curiosi, che mi guardano con aria terrorizzata e invadente.

Mi apro un varco tra di loro, mentre mi alzo il bavero della giacca, e riprendo a camminare verso casa. Ho ancora la cena da preparare, e il mio corpo ha un'inusuale bisogno di una doccia.

sabato 24 febbraio 2007

Cammina tra di noi, ma non è uno di noi


Credo sia stata colpa mia, se ieri sera, parlando con una mia amica di questo e quello, il nostro argomento è tornato sulla morte. Sconvolge sempre parlare dell'argomento estremo, della nera meretrice, del passo finale, dell'ultimo saluto: è una questione, però, che mi ha sempre affascinato e un po' suggestionato. Tutti i miei amici più intimi sanno che, per lungo tempo sono stato convinto che sarei morto a 23 anni: non per vezzo o per divertimento, ma perchè per una settimana avevo sognato, notte dopo notte, che mi sarei spento a quell'età. Cioè capite: sognare consecutivamente per sette notti, in modi diversi, la propria morte sempre allo stesso modo, e sempre alla stessa età, ti fa porre qualche domanda. Beh, adesso ne ho compiuti 25, e sono ancora qua. Quindi la mia mini-serie di sogni avrà sicuramente voluto significare qualcos'altro, che ignoro.
Poi ho letto, qualche settimana fa, che una ragazza ha detto scherzando al proprio fidanzato che sarebbe morta il tale giorno. Ed è successo. Non nascondo che ho provato un po' di invidia: non perchè è morta, certamente (trovo che sarebbe una profonda mancanza di rispetto nei confronti della vita, e di chi la mia vita ha reso possibile e caratterizzato), ma perchè in qualche modo lei ha potuto "controllare" ciò che è incontrollabile per natura.
Ho visto un video su internet, di un ragazzo di 21 anni, chiamato Trainsurfer: ecco, ieri sera, parlando con questa mia amica, le ho detto questo: che vorrei se potessi scegliere, una morte "tragica ma coraggiosa". Come quella che ha avuto appunto il trainsurfer: la morte tragica la scelgo per egoismo, certo, perchè fa male pensare di andarsene senza che freghi nulla a nessuno. Siamo egoisti, e io lo sarei anche all'ultimo minuto. Ma una morte coraggiosa, senza smettere di vivere la mia vita, facendo qualche pazzia e andandomene con un sorriso.
Non è una mancanza di rispetto per tutti coloro che soffrono per un male incurabile, o per aver subito un grave incidente, ho detto alla mia amica, ma è il desiderio di non andarsene nell'anonimato, vecchio e solo. "Se la morte fosse davvero lì, dietro l'angolo, la penseresti diversamente", mi ha detto un altro mio amico, in una differente occasione in cui la questione era stata sollevata. Si, forse è vero. "Tutta colpa di gente come Jim Morrison e Kurt Cobain, se la gente fa questi discorsi", ha sostienuto un terzo. Vero anche questo.
"Cammini tra di noi, ma non sei uno di noi", mi ha detto una zingara, quando avevo 12 anni. L'ha detto per farsi dare qualche soldo, o per spaventarmi: ma ho sempre pensato che volesse dire che "il destino" avrebbe cercato di aggiustare le cose con me. Patetico? Forse.

p.s. Nella nona puntata della terza serie di Lost, una thailandese dice a Jack, protagonista bello e malinconico, la stessa frase. Ci sono rimasto secco.

lunedì 19 febbraio 2007

Post inutile


Ho scoperto che mi piacciono i "personaggi" un po' tristi, intelligenti, disillusi e tanto malinconici. Della categoria fanno parte il Kurt Cobain di "Last days", Donnie Darko, Orazio di Csi Miami, per intenderci.
Mercoledì compio 25 anni; un quarto di secolo, e cosa ho combinato di buono?

La cosa migliore che ricordo è aver "salvato la vita" a una bambina, quando ero in un campo scuola, a Fobello. Lei stava camminando davanti a me, aveva 8 anni e stava per cadere da un dirupo. L'ho presa per lo zainetto proprio all'ultimo. Io avevo forse 13 o 14 anni. Ecco, questa è la cosa migliore che ho fatto.

Un post inutile questo, ma ha un senso: a 25 anni meno due giorni, guardandomi indietro, mi rendo conto di quanto sono cambiato, e nello stesso tempo quanto poco sono andato avanti su una linea immaginaria che rappresenti le tappe della vita.
Ecco perchè mi sento un po' come quei personaggi malinconici, un po' tristi e disillusi che tanto mi piacciono. Capita a tutti quando si compiono gli anni no?

sabato 10 febbraio 2007

Ragazze


Certo, ti fanno davvero incazzare, a volte. Non importa quale sia il pretesto, quale sia l'occasione: ti fanno perdere l'ormai abusato lume della ragione.

You drive me crazy, girl.

Ma poi.
Ma poi ti rendi conto di quanto sono carine mentre dormono. Ti rendi conto che quei sorrisi... Quei sorrisi possono rendere una giornata degna di essere vissuta, e ti rendi conto che le loro teste sembrano fatte apposta per appoggiarsi alla tua spalla.
Ti rendi conto... Ti rendi conto che è fantastico il modo che hanno di baciarti quando meno te l'aspetti, e che i loro messaggi dolci e zuccherosi alla fine sono spesso l'unica cosa di cui hai bisogno. Ti rendi conto che ami il loro chiederti continuamente spiegazioni nel bel mezzo di un film, e che adori come cade "male" quella maglia sulla spalla, lascendo intravedere un reggiseno dai colori vivaci. Ti rendi conto che adori il profumo che ti lasciano addosso, e che sono carine non soltanto quando dormono, ma anche quando mangiano, ascoltano la musica a occhi chiusi o ballano senza musica sul pianerottolo delle scale.
Ti rendi conto che alla fine adori il loro farti attendere per ore, perchè devono prepararsi per uscire, perchè alla fine ti dimostrano sempre che ne è valsa la pena. E ti rendi conto che adori quando ti lasciano un alone di rossetto sulla guancia, e adori il loro avere sempre le mani fredde e le calze colorate anti-stupro.
Le adori in minigonna ma le adori con una tua felpa grande il doppio di loro, adori quando vanno in due in bagno e quando non riescono a parcheggiare in retromarcia.
Adori il loro voler rimanere abbracciate per ore, adori che arrivino in ritardo guardandoti con mezzo broncio e con sguardo da cagnolino bastonato, e che ogni scusa, per quanto assurda, sia sempre quella giusta. Te ne rendi conto, nonostante tutto, che le adori e basta.

Te ne rendi sempre conto, alla fine.

mercoledì 7 febbraio 2007

Zita


Ho visto la nuova pubblicità della Bmw: immagini veloci che si spezzano una nell'altra, una città dove regna sovrana la confusione, resa lineare soltanto dalle linee perfette del nuovo modello 2007 della casa tedesca. Alla fine si vede una ragazza: quella ragazza, con parrucca viola, si guarda attorno spaventata, la città è tapezzata di manifesti con il suo volto provocante.
30 secondi, che passano in mezzo a miliardi di altre pubblicità. Se non fosse che quella ragazza la conosco: Elisa Sednaoui, in arte Zita, che per un certo periodo ho potuto definire mia amica, prima che le nostre vite prendessero strade diverse. Anzi, la sua prendesse una strada diversa: in giro tra Londra, Miami, Parigi e chissà quali altre città capitali della moda e non solo.
Bene, quei trenta secondi mi hanno fatto riflettere, trasformandosi in minuti se non addirittura in ore: è forse invidia la mia, per una persona che ce l'ha fatta, quel giorno, a mandare in culo tutto il resto e si è dedicata a vivere la vita? E ce l'ha fatta, per di più.
Non sono sicuro di essere sicuro. Di certo eventi come questo sollevano l'ovvia insoddisfazione per la mediocrità con cui si inseguono tutti i giorni, uguali uno all'altro. Sta a me cambiare le cose dite? Si certo, è proprio quello il problema.

Cambiando discorso, ho sentito che Berl****ni ha dichiarato a Monza che gli omosessuali votano tutti a sinistra (usando un'abile doppio senso, "sono tutti dell'altra sponda"), tra le risatine dei leccaculo di turno. Riflettevo all'elenco di affermazioni che sono uscite dalla sua bocca, soltanto negli ultimi anni, e sono arrivato a una conclusione. Lui odia la satira, i comici e tutti coloro i quali cercano di screditarlo con caricature e barzellette; beh, adesso ha deciso di anticiparli tutti: sarà lui la parodia esatta di un politico medio. Non si può fare caricature di una caricatura.

Concludendo, consiglio a tutti il disco di Amy Winehouse: non pensavo che un genere tendente al "soul" potesse mai attirarmi, invece rischia di essere una delle più belle sorprese del 2007. Anche se lei, intervistata a Tropical Pizza, ha dimostrato di essere una merda di donna. Ma, si sa, non si può avere tutto dalla vita.

domenica 4 febbraio 2007

Genova - Catania


Genova, piazza Alimonda, 20 luglio 2001. Un ragazzo, dopo gli scontri con la polizia, rimane a terra, freddo, senza vita. Si chiamava Carlo Giuliani, ucciso da un poliziotto, a 23 anni, durante una manifestazione contro i potenti della terra.

Catania, ospedale Garibaldi, 2 febbraio 2007. Un poliziotto capo viene portato d'urgenza in sala operatoria, dove si spegnerà poco dopo. Si chamava Filippo Raciti, ucciso da un tifoso catanese, a 38 anni, durante una guerriglia urbana contro la polizia.

Non venite a dirmi chi ha ragione, e chi ha torto. Non sto parlando dei motivi per cui sono avvenuti gli scontri alla polizia: condividevo la manifestazione pacifista contro il G8, sono schifato dalla violenza gratuita contro la polizia, negli stadi italiani. Quello che conta è che degli uomini, in divisa, in due occasioni sono stati costretti a buttarsi in una mischia di cui loro non erano responsabili. Hanno reagito in maniera diversa: alcuni, a Genova, hanno perso la testa, hanno picchiato chi non centrava nulla, hanno abusato del loro potere. Ma solo alcuni: è grave, e sono stati puniti.
Ma sono convinto che se il poliziotto che ha sparato a Carlo GIuliani non avesse premuto il grilletto, avrebbe fatto la fine di Raciti. E se Raciti, invece di essere colpito da una bomba carta mentre scendeva dalla macchina, avesse estratto l'arma dalla fondina e avesse fatto fuoco, avremmo un'altro martire vittima dell'abuso di potere dei poliziotti.

La guerra non è colpa di chi la combatte, ma di chi la ordina.

giovedì 1 febbraio 2007

Pensavo


Oggi pensavo. Pensavo che se non fosse morto mio zio Gianni, forse adesso sarei seduto vicino al mio amico Gianluca nella redazione de "La Stampa", perchè vaffanculo, chi dice che rifiuterebbe una raccomandazione da qualche parte non ha capito un cazzo di come va la vita.
Pensavo che siamo composti da miliardi di cellule, e che queste cellule non fanno altro che morire per crearne delle nuove: siamo come una barca, che viene riverniciata, tappezzata, a cui vengono cambiati i pezzi, fino a quando non rimane nemmeno un pezzo dell'originale, a parte il timone forse. Quindi pensavo che, cervello a parte (anche se alcuni non sono d'accordo), io non sono assolutamente la stessa persona che ero qualche anno fa. Non c'è più nemmeno una cellula del "vecchio Cico" che faceva il liceo, che si preoccupava per le interrogazioni di Greco autori o che giocava a basket con scarsi risultati in una squadra salesiana, dopo aver perso l'occasione del grande salto ai tempi del "Giornalino". E me ne rendo conto.
Pensavo che mi sono un po' rotto le palle delle pubblicità delle varie compagnie telefoniche, come se un uomo potesse essere giudicato se preferisce Elisabetta Canalis, Paris Hilton, Megan Gale, o Aldo Giovanni e Giacomo (Wind, erano finite le fighe di legno da mandare in video?). E pensavo che, come mi ha fatto notare un'amica da poco conosciuta, sono ridicole le frasi pronunciate dagli eroi, nei film d'azione americani.
Pensavo che Mastella è un perfetto idiota, e pensavo che un'Inter come questa, beh, orgasmo. E domenica penso andrò allo stadio, perchè se i ragazzi battono la Roma potrei abbracciare il mio sconosciuto vicino di posto e urlare che voglio bene a tutti. Perchè pensavo che il calcio non deve essere un'ossessione, ma è un fenomeno sociale che può essere di una bellezza disarmante.
Pensavo che vorrei già aver ricevuto la certificazione dalla Croce Rossa internazionale, perchè forse, pensavo, la mia vera vocazione ora come ora sarebbe quella di salutare tutti, belli e brutti, e andare da qualche parte in giro per il mondo, a portare aiuti a coloro che sono dimenticati addirittura da dio. E pensavo che non andrei dunque in Iraq, dove l'obiettivo della telecamera di turno è puntato 24 ore al giorno, ma piuttosto in Somalia, dove la gente muore sotto i colpi del macete o dei kalashnikov che noi vendiamo a loro.
Pensavo che sarebbe bello avere un figlio un giorno: mi è venuto in mente guardando una mamma correre con un bambino al massimo di quattro anni sotto la pioggia, un tardo pomeriggio, schivando le pozzanghere mentre si tenevano per mano. E poco dopo un padre in macchina che cantava a squarciagola una canzone con il proprio bambino seduto a fianco, che lo guardava battendo le mani.
Pensavo che ovunque vai ci sono decine di meravigliose persone sconosciute con cui puoi parlare ridere e scherzare, e pensavo che mi sarebbe piaciuto nascere nomade, e che non avrei mai le palle per lasciare tutto e fare veramente il fotografo, come sogno. Pensavo che però mi piace la psicologia, e che l'alternativa in fondo non è così male.
Pensavo. Pensavo che ci son troppe cose a cui pensare.

venerdì 26 gennaio 2007

Flusso mentale


Anche questo è un vecchio scritto, ieri parlando con una amica mi è tornato in mente e pensavo che valesse la pena riportarlo qua, mi ricorda i tempi del liceo.

La pioggia cadeva fine sul campo di calcio dove centinaia di ragazzi avevano maturato i loro sogni mentre la luna continuava la sua partita a scacchi con un cammello troppo stanco per continuare a vivere e a sognare in quel cielo color cioccolato, mentre il pallone continuava a girare assegnando giudizi che a nessuno più interessavano e le speranze di coloro che venivano dall’est si spegnevano in un frastuono che somigliava a qualcosa di familiare senza che a nessuno importasse sapere dove erano finiti i miei sogni e i miei interessi che spesso si confondevano con la realtà di una vita che nulla aveva poi mai donato eccezion fatta per l’uomo che senza camicia era felice lo stesso e che non poteva quindi salvare la vita alla figlia del re che morendo non poteva soddisfare i suoi sogni d’amore con il bel principe conosciuto soltanto in uno specchio maledetto che rifletteva quel sogno giorni e giorni senza fermare mai il suo corso come un fiume in piena che attraversa pianure e valli dando vita ma anche sofferenze a chi non sa adeguarsi al sogno che al vita ha deciso per lui, a chi ha smesso troppo presto di sognare e di capire che nulla ha veramente senso tranne quello che noi vogliamo veramente, che sogniamo giorno e notte, mentre il cammello ormai troppo stanco continua a giocare a scacchi con la bugiarda luna, innamorata di una stella che mai potrà vedere ma che vive nel suo cuore e lo scalda nei giorni di bufera e tempesta più grigi, come in un sogno che mai potrà avverarsi, ma che non dobbiamo cancellare, mai.

Consiglio per tutti i viaggiatori: leggetelo ascoltando in sottofondo uno qualsiasi dei singoli degli Amiina, gruppo islandese molto legato ai Sigur Ros (le quattro componenti della band non sono altro che le violincelliste che accompagnano in tour Jónsi Birgisson e soci). Non ve ne pentirete.

P.s. L'immagine si riferisce al nuovo film di Michel Gondry, L'arte del sogno. Nonostante i traduttori italiani non abbiano stravolto il titolo, come nel caso di "Eternal Sunshine of the Spotless Mind", lo consiglio vivamente a tutti coloro che, a volte, faticano a distinguere il sogno dal vero.

giovedì 25 gennaio 2007

Melodia, Me lo dia perfavore


Ho in mente una canzone. Vorrei scriverla, perchè la sento che suona e sono sicuro che è qualcosa di originale. Non l'ho sentita per strada, non è una melodia che proviene da qualche spot pubblicitario, o rubata a una radio di una macchina di passaggio, no no è qualcosa di inedito. E cazzo, davvero vorrei che la sentiste anche voi, spacca di brutto. Vorrei scriverla, su un foglio, per paura di dimenticarla e che mi sfugga di mente, vorrei ma non ne sono capace: non conosco le note, i pentagrammi, non so nemmeno per esempio poi come potrei tracciare su un foglio la batteria, la differenza tra il basso la chitarra e il pianoforte. Se potessi la canticchierei al mio amico Pietro, lui è capace di scrivere la musica, ma non è qua ora e poi sono stonato, probabilmente verrebbe fuori qualcosa che non è. Maledizione, la sto perdendo. Ma dovete sentirla, è davvero un capolavoro! Ma vi rendete conto di quanto possa angosciare avere una cosa così grande e bella dentro, e non riuscire assolutamente ad esprimerla? A nessuno, proprio a nessuno. E se ci provassi uscirebbe una cantilena stonata, si perderebbe la sfumatura dei vari strumenti, rimarrebbe paralizzato in gola tutta la mia gioia.

Ecco, è così che mi sento, quando vorrei esprimerti quanto mi manchi.

mercoledì 10 gennaio 2007

R-esitenza?


Non se ne può più. Di chi sto parlando? Di Gianpaolo Pansa e Giorgio Bocca. Ormai non ha quasi più senso chiedersi chi dei due abbia ragione: entrambi risultano dire la stessa cosa, personalizzandola e cercando di imporre il proprio punto di vista, creando una faida figlia dei propri odi personali.
Uno sottovaluta certe cose, mentre il secondo ne ipervaluta altre, tutto li.
Uno afferma che «la guerra partigiana è stata importante, ma si è prestata a degenerazioni e retorica di comodo», mentre l’altro risponde che «essa si è prestata a degenerazioni e retoriche di comodo, pur essendo stata importante». Cioè lo stesso concetto, ma capovolto, ipotizzando che il diverso ordine delle idee cambi il succo del discorso.
Bocca ha ragione quando dice che «mettere in discussione certi valori è indice di fascismo»; ma ha ragione Pansa quando sostiene che «la sinistra clericale è sempre stata fascista a suo modo, ma con pretese di moralità che è ora che finiscano». Ma l’Italia è ancora oggi fascista, lo si sa bene: basta guardarsi intorno, i vecchi fascisti sono ancora tutti in giro, mascherati sotto altre bandiere, a volte talmente ipocriti da non sembrar veri. E anche il controfascismo, spesso, risulta essere fascismo alla rovescia.
Basta, non se ne può più!
Da un punto di vista storico e sociale, la Resistenza è stata un fenomeno fondamentale, necessario e inevitabile.
Che tra le file dei partigiani di tanto in tanto si nascondessero criminali, poco di buono, gente unitasi alla lotta solo per mascherare la possibilità di compiere crimini o vendette personali, deve stupire così tanto? Capita in tutte le guerre, da quando l’uomo ha per la prima volta raccolto un bastone per colpire un suo simile.
Che, contrapposti, ci fossero tra tutti i morti ammazzati dai partigiani, moltissimi che il fascismo l’avevano “subito”, più che appoggiato, era di di nuovo inevitabile, nella ingiustificata spietatezza che ha caratterizzato quegli anni bui della storia italiana.
Che senso ha dunque continuare a cercare di attribuire una ragione agli uni o agli altri? Perché deve esserci per forza un buono, da contrapporre inevitabilmente a un cattivo? In situazioni come quelle non ci sono vincitori o vinti, hanno perso tutti.
La storia dovrebbe insegnare a non commettere gli stessi errori, invece di alimentare una faida che ha già causato troppe vittime, colpevoli soprattutto di aver conosciuto il mondo nel momento sbagliato.

giovedì 4 gennaio 2007

Mentalese


Non ho scritto per tutto il mese di dicembre, per diversi motivi. Banalmente direi per mancanza di tempo, ma sarebbe riduttivo.

Facendo un gioco mentale, si potrebbe ipotizzare che da questo istante, il tempo cominciasse a tornare sui suoi passi. Ecco, che tra 3 giorni e qualche ora, sarebbe di nuovo il 2006. Propositi per il vecchio anno? Beh, "Sicuramente questo 2006 che sta per ricominciare non sarà poi così ricco di sorprese come ci si potrebbe immaginare", urlerei al microfono dell'intervistatrice, mentre diverse comparse animano la scena intorno. Trascorrerei questi ultimi tre giorni di questo 2007 morto ancor prima di esser gustato a ricordare. Ricordare gli errori fatti? Le cose che avrei potuto fare e che non ho fatto? Perchè poi? Comprerei invece una bottiglia di vino non male, metterei per una volta una dannata giacca, e prima del conto alla rovescia (sempre se abbia senso un onto alla rovescia, visto che si torna indietro, quindi a rigor di logica il conto dovrebbe essere fatto "alla diritta", no?) mi allaccerei le scarpe, per poi correre. Correre, attraverso tutto il tempo che mi sarà concesso, arriverei a quel giorno finalmente, e mi impedirei di fare quella telefonata, che in fondo ha rovinato un po' tutto. Si lo so, non è solo ua telefonata, c'erano altri problemi, ma forse senza di lei, le cose sarebbero andate diversamente.
Che dite? Non si può correre attraverso il 2006? Se si decide di tornare indietro, lo si percorre in ordine, dal 31 dicembre al 1 gennaio? Ci sono delle regole dite? No, l'esperimento mentale è mio e se si torna indietro i giorni arrivano a caso.

Non sono deluso da come il 2006 si è comportato con me. Io sono stato vigliacco con lui. Io l'ho reso quello che è stato.

Progetti 2007:

percorrerlo come se ripercorressi indietro il 2006, si si