martedì 23 dicembre 2008

True love waits


La prima cosa che ho conosciuto di lei era il profumo di fragola. Ero seduto sul pullman che mi portava a casa dall’università, guardavo fuori dal finestrino. Se avessi saputo che film andava a cominciare, non sarei rimasto lì con quell’aria imbronciata e lo scazzo sempre acceso.
Era inverno: il sole tramontava dietro i palazzi, mentre lei seduta accanto a me si toglieva i guanti e la sciarpa. Mi ero voltato a guardarla per il suo profumo intenso e per il fatto che si era seduta di fianco a me, anche se c’erano decine di posti liberi. Aveva corso per prendere il pullman, aveva l’aria affannata, ma mi ero comunque immediatamente innamorato di lei. La madre dei miei figli, avevo pensato.
Il destino sa scherzare a volte, se poi la selezione casuale dell’iPod diventa sua complice, il gioco è fatto. Il suo sguardo aveva incontrato il mio proprio mentre le prime note di True love waits dei Radiohead prendevano vita nelle mie orecchie.
“Cosa ascolti?” mi aveva chiesto. Senza aspettare una risposta aveva afferrato un’auricolare, aveva ascoltato qualche secondo in silenzio, poi mi aveva detto, come se ci conoscessimo da sempre: “bella, mi piace. D’ora in poi sarà la nostra canzone”.

I'll drown my beliefs
to have you be in peace


Si chiamava Viola, aveva qualche anno in meno e, come avrei scoperto poco dopo, frequentava alcuni corsi insieme a me.
Durante una pausa si era avvicinata, mi aveva chiesto se avessi una sigaretta. Avevo smesso da poco tempo, e mi ero maledetto per questo. Lei aveva sbuffato, appoggiandosi al muro per catturare i pochi raggi di sole capaci di filtrare attraverso le maglie di un dicembre mai così freddo.
Avevamo parlato, principalmente di dischi e di arte, argomenti con i quali mi trovavo abbastanza a mio agio. Non me l’ero sentita di obiettare, quando aveva citato tra i suoi cinque album preferiti Bridge Over Troubled Water di Simon and Garfunkel. Avrei avuto tempo per farle cambiare idea.

I'll dress like your niece
to wash your swollen feet


Mi aveva parlato a lungo del suo ragazzo, un certo Claudio con cui stava da circa tre anni, mentre io avevo cercato di farle capire come le donne in cui mi ero imbattuto avevano sempre finito per deludermi. Tranne lei, ma non gliel’avevo mai detto. Uscivamo sempre più spesso, per un cinema, una birra scura o per un cappuccino in quel Caffé letterario che frequentavano tutti i giovani più cool in quel periodo. Più il sentimento per lei cresceva, meno ero capace di descriverlo. Adoravo ogni piccola cosa di lei: le tonnellate di piccole caramelle alla fragola che consumava ogni giorno per nascondere il puzzo del tabacco, i suoi orribili guanti colorati, la sua collezione di sorpresine kinder perfettamente ordinate sulla sua scrivania. Lei diceva di amare il mio lato malinconico, la mia capacità di nascondere a fondo i sentimenti. Giurava che prima di morire mi avrebbe visto piangere, ma lo diceva sorridendo. Migliori amici senza saperlo, affrontavamo la vita gettandoci l’uno sull’altro le rispettive paure; eravamo prigionieri su una nave chiamata ovvietà, dalla quale eravamo però troppo spaventati per decidere di saltare giù e affrontare il mare in burrasca dell’ignoto.

Just don't leave
don't leave


Gli anni erano passati, senza che riuscissi a dirle quello che provavo, tra un fallimento e l’altro di ogni singola relazione in cui mi ero buttato. Era così ovvio quello che avrei dovuto fare, che sembrava davvero troppo sbagliato. Lei aveva vinto un concorso in un’università a Berlino, era partita con la promessa di scriverci ogni giorno, di vederci il più possibile e di non dimenticare mai che eravamo come la gabbianella e il gatto del famoso racconto.
La sera prima di partire era venuta a salutarmi a casa, invece di andare da Claudio. A lui era sicuramente dispiaciuto, ma non aveva voluto discutere su questo. Eravamo rimasti sdraiati sul letto, ascoltando la nostra canzone in silenzio. Poi era partita. Non si era voltata e senza saperlo si era persa le lacrime che i miei occhi non erano riusciti a trattenere.

And true love waits
in haunted attics
and true love wins
on lollipops and crisps


Ci eravamo davvero sentiti praticamente ogni giorno durante la sua assenza. Era tornata carica di progetti e di entusiasmo per il futuro. Era un bel periodo per entrambi, fino a quando un giorno mi aveva detto che andava a vivere con Claudio. Lo aveva detto senza guardarmi negli occhi, imbarazzata dal silenzio che si era creato poi.
Ero felice per lei, ma una parte di me era schiacciata da questa notizia e aveva bisogno di bere.
Avevo regolato i conti con la cosa in un bar, la sera stessa, da solo.
Tornato a casa avevo ascoltato la nostra canzone mille e mille volte. Poi mi ero addormentato.

I'm not living
i'm just killing time


Avevo conosciuto una ragazza, poco dopo. Non conosceva i Radiohead, ma era dolce: sapeva di miele e cioccolato. Ci eravamo sposati quasi per gioco, in un marzo particolarmente troppo caldo per i miei gusti. Viola aveva partecipato alla cerimonia insieme a Claudio. Avevamo riso, scherzato, quel giorno, insieme ai parenti riuniti. Ma in me qualcosa non andava, e lo sapevo. Viola aveva il mio stesso sguardo.

Your tiny hands
your crazy kiss and smile


Come un sogno bruscamente interrotto, il mio matrimonio era finito senza che avessi nemmeno il tempo di rendermene conto. Avevo riportato le mie cose nel mio vecchio appartamento, felice di sentire che quel profumo di antico e libri troppe volte sfogliati non l’aveva abbandonato. Avevo 34 anni, un divorzio alle spalle e troppi fallimenti da sopportare, ma riuscivo ancora a essere ottimista sul futuro.
Una sera Viola aveva suonato il campanello. Le avevo aperto la porta, fuori diluviava e lei era fradicia. Mi aveva abbracciato, senza dire nulla, per diversi minuti.
Lei e Claudio si erano lasciati. Sapeva da sempre di non amarlo, ma si era lasciata trasportare dagli eventi per tutto quel tempo. Ora se ne rendeva conto.
Le avevo prestato una felpa, dentro la quale sembrava un piccolo pulcino bagnato; mi aveva chiesto se poteva fermarsi a dormire per quella notte soltanto. Era bastata.
Ci eravamo baciati, proprio mentre suonava la nostra canzone. Sapeva di fragola. Tutto ciò che mi era sembrato sbagliato in quegli anni, ora sembrava perfettamente coerente, meraviglioso e soprattutto giusto.

Just lonely, longing.

Mi aveva guardato negli occhi, subito dopo.
“È colpa della nostra canzone”, aveva detto. “Se ci siamo baciati?” le avevo chiesto io, accarezzandole i capelli, mentre se ne stava sdraiata affondando il parte del volto nel mio cuscino.
“No, se abbiamo aspettato così tanto”.
Avevo sorriso.
True love waits.

martedì 25 novembre 2008

Nel parco


La ragazza cammina lentamente, nonostante il freddo. Di solito il parco è molto affollato nel periodo estivo: ci sono studenti sdraiati sulle coperte a quadrettoni che studiano all'ombra di qualche albero, o bambini che si rincorrono sotto lo sguardo attento delle mamme o delle nonne. Ma in questo periodo è davvero poco frequentato. Solo pochi e infreddoliti passanti lo attraversano per raggiungere il calore casalingo dopo una giornata di lavoro: quasi corrono, con l'espressione tesa di quando si combatte a pugni chiusi contro il nemico Inverno.
Ma lei no. Cammina lentamente, con le mani in tasca e lo sguardo basso. Da dove sono io non riesco a vederla bene in volto, dovrebbe voltarsi leggermente verso sinistra, ma so perfettamente che non lo farà. Immersa nei suoi pensieri tira calci alle foglie secche, come se danzasse senza una meta precisa. Riesco a notare un filo bianco che esce dalla sua tasca destra: le cuffie scompaiono sotto il berretto di lana.
Provo a immaginare che genere di musica stia ascoltando, mi viene in mente una vecchia ballata che dubito però lei possa conoscere. Continuo a guardarla dal punto in cui mi trovo, so perfettamente che non si è accorta di me, nonostante tutto.
Dopo pochi minuti ruota su se stessa, rimanendo un paio di secondi in equilibrio su uno solo degli stivali neri che le fasciano le gambe; si avvicina a una panchina, proprio di fronte a me, e si siede.
Guarda nella mia direzione. Un brivido percorre la mia schiena, mentre i suoi occhi si fondono con i miei. Non può avermi visto, ne sono certo, ma un sorriso appena accennato si disegna sul suo volto, come se con il suo sguardo stesse scavando nel mio cuore.
Ma è solo un attimo. Poco dopo infatti torna guardare il selciato ricoperto di rami e foglie, come se cercasse di trovare un senso all'incoerenza che si trova davanti.
Una goccia di sudore riga la mia fronte, conosco quella sensazione.
Lui mi dice che è lei, ma non voglio credergli. Distolgo lo sguardo, alla ricerca di qualcun'altro. Uno qualsiasi. In fondo al vialetto c'è un vecchio in compagnia di un grosso cane. Probabilmente per sfuggire alle continue urla della moglie, ha portato l'animale a camminare un po' affrontando il freddo. Lo guardo bene, per quel che mi riguarda sarebbe perfetto.
No, il vecchio non va bene, mi dice lui. Maledizione.
Torno a guardare la ragazza. So come andrà a finire, e il dolore si impossessa di me.
Lei è bellissima. Seduta sulla panchina, si è accesa una sigaretta, che stringe tra le dita rese insensibili dal gelo. Le sue labbra. Noto immediatamente le sue labbra. Sono perfette, morbide, calde, nonostante il freddo tagliente. Un bacio soltanto, non so cosa darei per un semplice bacio.

Non mi guardare, ti prego, è la tua unica speranza.

Ho gli occhi lucidi, quando mi accorgo che lei, soffiando una leggera nuvola di fumo, alza lo sguardo e incrocia per la seconda volta il mio. "Ora", mi ordina lui.
Una questione di pochissimi attimi. Il dito scivola veloce sul grilletto, il colpo è attutito dal pezzo di stoffa avvolto intorno alla canna.
Da qui non riesco a sentire se lei emette un suono oppure no: la vedo barcollare per un secondo, gli occhi rivolti al cielo; un cielo sempre più buio e freddo, mentre il colpo che le ha trafitto il cuore si impossessa della sua vita.
Duecentoventi metri di distanza, il mio nuovo record. Ma è un primato amaro.
Mi alzo dal nascondiglio nel quale ero rimasto sdraiato per diverse ore, mi scrollo di dosso la terra e le foglie marcie. Nascondo il fucile nella borsa, e mi avvio con passo veloce verso la fermata del pullman.
Un bimbo e una nonna mi vengono incontro: li oltrepasso veloce, cercando di non dare nell'occhio. Ma è impossibile.
"Nonna, perchè quel signore piange?" chiede il piccolo, voltandosi a guardarmi.

Il pullman arriva, salgo e mi siedo in fondo. Appoggio la testa al vetro appannato, guardando per l'ultima volta il parco avvolto da una sottile nebbia.
"Devi essere fiero, con questa sono cinque", mi dice lui, nella mia testa.
Asciugo le lacrime, con un movimento della mano. Mi addormento, non prima di aver fantasticato su quel bacio, quel bacio rubato che non avrò mai.

venerdì 31 ottobre 2008

Un minuto


C'era una coppia di anziani seduti su una panchina poco distante da noi, quel giorno, quando ti ho afferrata per un braccio, ti ho tirata a me, e ti ho baciata. In pieno centro, con la gente che scorreva intorno a noi; immobili con gli occhi chiusi e la mente altrove: come in quella foto famosa di Doisneau.
Lui ci ha guardati per qualche istante, poi ha dato un leggero colpo con il gomito a lei, che stava vagando con gli occhi stanchi, altrove.
Lei si è accorta di noi, ha visto la tua mano muoversi lentamente, indugiare, e raggiungere la mia. Ha sorriso, ha guardato lui che le ha borbottato qualcosa. Poi, dopo un paio di secondi di esitazione, lui le ha messo un braccio intorno alla spalla. Proprio come aveva fatto allora, con molti meno anni dentro il sacco, in un tempo in cui io e te non eravamo neppure ipotesi.
Sessanta secondi, immobili, senza respirare.
Tu hai sorriso, io ti ho detto che sei una pazza. Pazza di te, hai risposto.
Abbiamo ripreso a camminare, lasciandoci alle spalle la coppia alla quale avevamo appena regalato la gioia di un ricordo.
Un ordinario minuto, tra tanti ordinari minuti della vita. Ce ne sarebbero stati molti altri di simili, se non più belli, dopo quello. Ma speciale, per una coppia di anziani torinesi, che in quel minuto ha rivisto cinquant'anni di vita insieme condensati in un unico gesto spontaneo.
A Torino, per le vie del centro, succede anche questo.

domenica 5 ottobre 2008

Non ti amerò


Non ti amerò mai più di quel libro che ho letto al liceo,
aveva un titolo lungo e buffo ma ha condizionato il resto della mia vita.
Non ti amerò mai più del Billy Corgan di Adore,
non ti amerò mai di più della Liv Tyler di "Io ballo da sola",
con quesi suoi vestiti a fiori corti che a volte sogno ancora adesso.
Non ti amerò mai di più di una serata con quei due amici,
quando si parlava di cose stupide come sentimenti calcio e donne;
non ti amerò mai di più della mia ragazza quando avevo 16 anni,
anche se era poi risultata una stronza, non ti amerò mai di più.

Ma ti amerò, perchè lo sento
c'è un pezzo di te in ognuna di queste cose.
Ma ti amerò, perchè lo percepisco
quelle cose le amo perchè appartengono anche a te.

Non ti amerò mai di più dei film di Michel Gondry,
dove il sogno e la vita vera sono fatti della stessa materia.
Non ti amerò mai di più di Andrey Hepburn in "vacanze romane",
dove è un principessa capricciosa, non ti amerò mai di più.
Non ti amerò mai di più del mio viaggio in Inghilterra,
dove ho scoperto che profumo ha, un corpo nudo sopra il mio.
Non ti amerò mai di più del "Bar delle Folies-Bergère" di Manet,
dove tutta la solitudine del mondo è espressa in un solo dipinto.
Non ti amerò mai di più della musica dei Baustelle,
che mi fan tornar bambino, oppure volare via da me.
Non ti amerò mai di più che camminare di notte per Torino,
dove ogni strada via o piazza mi parla e mi consola.
Non ti amerò mai di più del mio computer Mac,
non ti amerò mai di più che la marmellata di fragole fatta in casa.

Ma ti amerò, perchè lo sento
c'è un pezzo di te in ognuna di queste cose.
Ma ti amerò, perchè lo percepisco
quelle cose le amo perchè appartengono anche a te.

Quindi...
Non ti amerò mai di più che far la doccia insieme a te,
non ti amerò mai di più che baciarti tutti i giorni,
non ti amerò mai di più che coccolarti tutte le notti,
non ti amerò mai di più che pensare di vivere per sempre insieme a te.

lunedì 29 settembre 2008

Tarm


Sono tornati i Tre Allegri Ragazzi Morti, simpaticamente abbreviabili in Tarm.
Che se senti solo l'acronimo ti sembrano un prodotto per pulire il legno, però se dici: "Ascolto i Tarm", fa molto più figo, anche se probabilmente il 90% della gente sana non capirà a cosa ti riferisci (probabilmente lo stesso 90% che non capirebbe nemmeno se dicessi "Ascolto i Tre Allegri Ragazzi Morti", ma questo è un altro discorso).
Il pezzo nuovo è un capolavoro letterario, come al solito: il testo è il seguente:

"E giro il mondo, giro il mondo"

ripetuto 63 volte.
Per la serie, sappiamo come irritarvi e lo facciamo.

Ma non è obiettivo primario di questo post osannare la ricchezza lessicale dei bravi musicisti di Pordenone, anzi.
Ascoltando il nuovo singolo su Brand New mi è immediatamente riapparso in mente un aneddoto che riguarda il mio periodo "tardoadolescenziale", legato a un loro concerto di tanti tanti anni fa.
Ai tempi ero a malapena liceale, da poco patentato e ricordo che quella sera suonavano i Tarm, in una località non ben definita poco lontana.
Chi mi conosce, sa perfettamente che, soprattutto in quel periodo, ero assolutamente incapace di gestire qualsivoglia rapporto con le ragazze. Se poi quella ragazza si chiamava Valentina, e chi mi conosce sa chi era Valentina... Beh, un bel casino. Quella sera Valentina andava al concerto. Lei odiava i Tarm. Valentina andava al concerto perchè c'era quel tipo che le piaceva: me l'aveva detto, sfidandomi, perchè sapeva quello che provavo per lei, sebbene io continuassi imperterrito a propormi come amico del cuore.
Ero affranto, ma Laura aveva riacceso in me qualche speranza di superare quel momento. Laura era un'amica che vedevo e sentivo poco, Laura era carina alternativa e svarioncella al punto giusto, ma soprattutto Laura aveva avuto una storia con quel fantomatico ragazzo che Valentina voleva a tutti i costi conquistare al concerto. Inoltre, per rendere il quadro ancora più chiaro, tra me e Laura c'era stato qualcosa, un paio di volte. Intendiamoci: non ci eravamo mai baciati, mai toccati, eccetera... Però eravamo andati a tanto così, c'era stata chimica, capite no?
Comunque, quella sera andai al concerto con Laura. Era nel pieno della sua bellezza tutta particolare, molto punk ma nello stesso tempo acqua e sapone. L'idea di entrambi era quella di far ingelosire i nostri reciproci amori tardoadolescenziali, che vedendoci insieme al concerto sicuramente si sarebbero accorti di quanto ci desideravano e amavano e.

Non andò propriamente così. Un paio di cose andarono storte.
La prima: io mi "innamorai" perdutamente di Laura. Lo so, chi mi conosce sa perfettamente che il mio "innamorarmi perdutamente" ai tempi non significava molto. Però mi ero invaghito di tutta questa storia del piano, di come lei saltellava ascoltando la musica mettendomi un braccio intorno al collo, eccetera. Mi aveva anche dato un bacio sulla bocca, nell'euforia della cosa, ed io avevo per un attimo dimenticato Valentina. Fanculo, mi ero detto. Laura è infinitamente meglio, e mi vuole.
La seconda: il tipo che piaceva a Valentina, che potremmo chiamare bullobello, Valentina non l'aveva calcolata nemmeno per un secondo. Se n'era stato appoggiato al muro per tutto il tempo, guardando con occhi adulti i ragazzini ballare. Era molto più grande di noi tardoadolescenti, e si vedeva lontano un miglio che ci sapeva fare infinitamente di più. Valentina, quindi, dopo le prime quattro canzoni, se n'era andata con un terzo individuo non chiaramente identificato, che avrei poi scoperto mesi dopo essere diventato il suo ragazzo.
La terza: Laura invece era riuscita perfettamente nel suo piano. Mentre io salutavo alcuni amici, lei si era messa a parlare e poi a limonare durissimo con bullobello: mi aveva poi salutato e confidato che sarebbe stato lui ad accompagnarla a casa. Mi aveva baciato sulla guancia, bisbigliandomi nell'orecchio: "grazie Cico, sei unico!". Se n'era andata portandosi via un ennesimo pezzo di me, proprio mentre I Tarm finivano il concerto con "Occhi bassi", uno dei loro pezzi più celebri.
La quarta: ero rimasto solo, avevo deciso di bermi ancora un paio di birre e tornarmene a casa. Mesi dopo avrei poi scoperto che al concerto c'era una ragazza, più piccola e di cui non riporto il nome per motivi che sarebbe troppo lungo spiegare, che si era invaghita di me e che mi aveva "seguito" per tutta la sera. Io non mi ero ovviamente accorto di nulla, e lei era troppo timida per farsi avanti. Me l'avrebbe detto poi mesi dopo, per l'appunto, di fronte a un caffè in un giorno di pioggia. Ma questa è un'altra storia.

Ai tempi non sapevo che tutte o quasi le mie relazioni amorose in futuro non sarebbero state altro che una versione molto più incasinata di quella.

E giro il mondo e giro il mondo!

venerdì 12 settembre 2008

Cerotti


Per alcune ferite, il cerotto non basta.
L'unica cosa da fare, per farle guarire davvero, è strappare via il cerotto: lasciarle respirare e dare loro il tempo di guarire da sole.

Quindi: Ti voglio bene, pulce, comunque sia andata :)

Stttttraaaaaap!

martedì 2 settembre 2008

Ragazza che non conosco


Ragazza che non conosco, ti scrivo queste poche parole con la speranza che un giorno, chissà dove, ti possano raggiungere. Magari quando sarai un po' triste, seduta con la schiena al muro e la testa appoggiata alle ginocchia; oppure, perchè no, quando sarai al culmine della felicità: le mie parole giungeranno a te per scompigliarti i capelli come una folata di vento d'estate.
Ragazza che non conosco, se mi concentro riesco quasi a vederti, mentre con le tue gambe svelte danzi un ritmo che ti appartiene da sempre, e ti lasci ammirare, in un vestitino leggero che qualche artista del mondo delle fate ti ha disegnato addosso. Balli da sola, con gli occhi chiusi, perchè la musica la puoi sentire solo tu: ma, ragazza che non conosco, ogni tuo passo scandisce una melodia che prende forma nel mio cuore e nella mia mente, intrappolando il mio animo in un dolce vortice senza uscita.
Ragazza che non conosco, ti scrivo perchè ad un certo punto ho pensato di non farcela: dopo molti anni ho incontrato di nuovo quella sensazione di solitudine, una solitudine capace di scavarti dentro una voragine di cui non puoi valutare le dimensioni. Sapevo che era lì, profonda e silenziosa, ma per giorni infiniti mi sono rifiutato di guardarci dentro, spaventato di non saper gestire la sua profondità, una totale Assenza che si trasforma in Presenza inquietante di un qualcosa che non sai spiegare, ma che ti costringe a accucciarti in un angolo come un cane colpevole. Quindi ti scrivo, ragazza che non conosco, perchè quando ho deciso di smetterla di banalizzare il mio cuore, stando ad ascoltare le solite storie e le solite scuse, mi sei venuta in mente tu. Credere nell'impossibile è stata la causa di tutti i miei successi, ma anche di tutti i miei guai, pensandoci bene: qualcuno un giorno mi ha definito un "gambler", e ti assicuro che forse aveva ragione. Ho puntato ogni volta su ogni roulette che mi son trovato davanti, ho giocato anche dove sapevo che probabilmente avrei perso. Perchè, mi chiederai: perchè disprezzavo i luoghi comuni, e non ho mai smesso di credere che quel qualcosa che mi legava a una lei dovesse per forza avere un significato al di là di tutto.
Ragazza che non conosco, ti scrivo e so che forse un giorno risponderai: non sono così disilluso da credere che i sogni non si realizzino mai, anzi: i miracoli a volte sono più frequenti delle tragedie, soltanto che noi non li sappiamo individuare. La mia paura, però, è quella che io possa deluderti, quando finalmente ci saremo incontrati: sono diventato più duro, questo è vero, ma sono scorbutico, un po' orso e la voragine di cui ti parlavo prima ha il brutto vizio di risucchiare anche le persone che mi stanno intorno. Inoltre non ho mai davvero imparato a ballare, e ho il terrore che tu possa annoiarti se ti parlerò soltanto di cinema, di sogni legati a una canzone o di quel libro che tu avresti tanto voluto leggere ma che non hai mai avuto il tempo o la voglia di affrontare.
Forse sono soltanto un mezzo uomo: un eterno bambino in fondo, che ancora rimane a bocca aperta guardando un treno passare, carico di gente anch'essa con le proprie vite che scorrono via, lontane.
Ragazza che non conosco, come potrò piacerti in quei giorni in cui mi assale la malinconia, e soltanto il vedere una foglia che si stacca da un albero mi riempie gli occhi di lacrime per una vita che non ho più, ma che tanto ha significato per me in un tempo che sembra non appartenermi più?
Ma per questo forse ti scrivo, ragazza che conosco. Non credermi quando ti dico che forse preferirei non incontrarti, per paura di deluderti: sono un po' come quelle persone che vogliono credere nei miracoli, ma quando ne hanno uno davanti rinnegano di avervi assistito.
Ci sarà da qualche parte un piccolo bosco, dove potrai insegnarmi a ballare a piedi nudi sull'erba bagnata di rugiada; oppure un fiumiciattolo circondato da massi sui quali potremo sdraiarci e in silenzio ascoltare la musica della natura.
Ragazza che non conosco, io e te ci apparteniamo, anche se dirlo ora così, ad alta voce, sembra quasi violare un segreto millenario. Perchè magari anche tu, ora, ragazza che non conosco, stai guardando fuori dalla finestra, mentre piove leggero e ti sei accesa un'altra sigaretta. Guardi fuori dal vetro appannato, e sogni una mano che ti sfiori leggera, capace di suscitare in te quelle emozioni che non provi più da troppo tempo ormai: pensavi che qualcuno, o qualche scelta sbagliata, avesse ucciso quei sentimenti per sempre, ti eri ormai rassegnata che certe piccole schegge di cielo ormai non ti appartenessero più.
Ma io sono qua, ragazza che non conosco, con il mio bagaglio di fallimenti al quale si accompagna un piccola ma preziosa borsa di sogni e certezze.
Non dire nulla, ragazza che non conosco: guardami soltanto con quegli occhi che non ho mai visto, e il resto verrà da se.
A presto quindi, ragazza che non conosco, oppure "a tra mille anni". Non importa, sai. Perchè so che ci sei, e questo è già una risposta a tutte le domande che, una risposta appunto, ancora non ce l'hanno.

lunedì 18 agosto 2008

Rabbia


Rabbia.
Sono due mesi ormai che lo vengo a trovare tutti i giorni, e ancora non mi sono abituato alla sua presenza. Per fortuna presto sarà tutto finito.
Disgusto.
Oggi è l’ultima volta che ci vediamo. Questa notte, alle quattro e quarantacinque minuti esatti, il cocktail di curaro, barbiturici e cloruro di potassio metterà fine alla sua vita, e potrò finalmente cancellare dalla mente ogni immagine che lo riguarda.
Il secondino mi apre la porticina che conduce in una minuscola stanza priva di finestre. Mi fa un cenno di saluto con il capo, con uno sguardo severo: la scena si ripete medesima dal primo giorno, da quando ho accettato di seguire il caso. Sostegno psicologico lo chiamano. Come se queste bestie ne avessero bisogno. Si cerca di recuperare le loro anime in qualche modo: qualcuno richiede un prete, ma spesso mandano un tirocinante in psicologia: costa poco e difficilmente si rifiuta.
Io ho accettato subito, appena ho letto il nome del condannato a morte. John Casey.
Entro nella stanza, la luce è troppo forte, come al solito. John è seduto al centro del locale, su una sedia di legno. Di fronte a lui un vecchio tavolo e una seconda sedia, per me. Mi sorride, con un’espressione stanca e coraggiosa, che mi fa venire il voltastomaco. Ma devo mentire ancora soltanto per poco, non posso tradire le mie emozioni proprio ora.
“Alla fine eccoci qua, è giunto il momento”, mi dice, mentre prendo posto di fronte a lui, e sistemo la mia valigetta sul tavolo. Mi considera un amico. Non sa che sono tutt’altro.

John è stato arrestato tre anni fa, dopo aver ucciso dodici persone durante la sua folle corsa attraverso lo stato. Entrava in una casa, costringeva il padre di famiglia a guardare mentre lui violentava la moglie o la figlia. O entrambe. Se era in una buona giornata, torturava i malcapitati, e poi semplicemente li uccideva. Ha distrutto quattro famiglie, senza mostrare il minimo rimorso. Ho visto decine di volte i video del processo: sorrideva beffardo, mentre il giudice leggeva la sentenza.
Potrebbe essere mio padre, ma si è subito aperto con me, fin da i primi giorni. Ha parlato di disagio, di problemi di droga, di alcolismo, di una moglie che lo avrebbe lasciato. Ha anche pianto qualche volta, dando pugni secchi sul tavolo di legno. Ha scritto lettere a i parenti delle vittime, invocando un perdono che mai avrebbe potuto ottenere.

Allunga una mano sul tavolo, e prende la mia. Io lo guardo con la maschera di interesse che ho costruito in questi mesi, ma una parte di me vorrebbe conficcargli una penna, in quella schifosa mano coperta di sangue.
“Mi sei davvero stato d’aiuto, in questo periodo. So di non essere degno del minimo sentimento da parte di un altro essere umano, dopo quello che ho fatto, ma tu sei la cosa più vicina a un amico che io possa avere”, mi dice, guardandomi negli occhi. Gli rispondo con un sorriso diabolico, scosto la sua mano e apro la mia valigetta.
Non sono un tuo amico, figlio di puttana. Anche se in questi due mesi ho fatto di tutto per diventarlo. Ho finto di interessarmi a te, di capire il tuo dolore. Ho finto addirittura di credere al tuo pentimento. Tutto per arrivare ad essere qui oggi, il giorno che te ne andrai all’inferno.

Tra le dodici vittime di John Casey c’erano anche mia madre, mio padre, e mia sorella. Io ero fuori casa, in quel periodo, per un noiosissimo campo scuola in montagna. Non avevo voglia di andarci, ma mio padre aveva insistito. Ti farà bene, conoscerai gente e respirerai aria buona facendo sport. Mi aveva salvato la vita.
Dai referti della polizia avevo potuto apprendere che il porco ha abusato di mia madre, poi le ha tagliato la gola. Dopo, non contento, è passato a mio sorella, mentre mio padre, legato a una sedia, era costretto ad assistere impotente. Aveva ucciso tutti e tre, poi si era cucinato qualcosa, prima di andarsene con il Suv che mio padre aveva regalato a mia madre per il ventesimo anno di matrimonio.
Quest’uomo ha distrutto la mia famiglia, con la stessa semplicità con la quale si spruzza dell’insetticida su un nido di formiche.
Ho cambiato nome, dopo quei fatti, e mi sono iscritto ai corsi di psicologia. Ho studiato, e mi sono laureato con ottimi voti. Ma questi successi accademici non potevano soffocare il mostro che mi viveva dentro da allora. Non riuscivo a interagire con nessuno: le poche persone che provavano a essermi amiche leggevano il dolore che mi marciva all’interno, e poco a poco mi si allontanavano.
Quest’uomo ha distrutto la mia famiglia, ma non solo. Ha distrutto la mia vita.

Ho pensato a lungo alla vendetta, quando sono riuscito a diventare il suo sostegno psicologico.
Ma come ci si può vendicare di un condannato a morte? Avrei potuto avventarmi su di lui con un coltello, durante i primi giorni: sarei riuscito a nasconderlo facilmente nel doppiofondo della valigetta. Ma gli avrei fatto soltanto un favore, probabilmente.
No, per vendicarmi avrei dovuto colpire il suo cuore. Per questo ho soffocato i miei sentimenti per due mesi, e ho frequentato il mostro che ha sterminato la mia famiglia.
E ne è valsa la pena. Un giorno John ha ammesso di non aver paura di morire, perché lui avrebbe potuto continuare a vivere nello spirito della sua unica figlia. La sua donna, una poco di buono quanto lui, lo aveva lasciato portandosela via, molti anni prima. Ma John, nonostante la tossicodipendenza e la sua carriera di serial killer, aveva seguito da lontano i progressi della sua bambina, che ormai si era fatta donna. Stava finendo l’università in città, e anche se lei non avrebbe mai sospettato chi fosse suo padre, per lui era l’unico legame di umanità, l’unica cosa buona fatta in una vita di insuccessi e violenza. Aveva pianto, il maledetto, mentre mi raccontava queste cose, mostrandomi una fotografia della giovane che portava sempre con se. Mi aveva abbracciato. Avevo sorriso, affondando la testa nelle sue spalle muscolose. Un sorriso malefico, figlio del mostro che lui, senza saperlo, aveva creato in me.

Conoscere Sofia, la figlia di John, non era stato difficile. Avevo finto interesse nei suoi confronti, e dopo un paio di settimane lei mi aveva invitato a salire a casa sua. Aveva gli occhi dolci, un sorriso sincero, un’intelligenza e una cultura invidiabili.
Due giorni fa l’ho invitata per una serata speciale a casa mia. Era entusiasta, poverina.
Mentre le scattavo le foto che voglio mostrare a John oggi, poco prima che il suo cuore cessi di battere, mi sentivo particolarmente eccitato e spaventato contemporaneamente.
Mentre le stampavo, il giorno seguente, mi sentivo anche un po’ in colpa, ma non dovevo lasciare spazio a questo tipo di emozioni.

Ansia.
Gli sorrido, mentre apro la busta di carta dentro la quale ci sono le fotografie.
“Devo mostrarti una cosa, prima che sia troppo tardi, John. Ma prima devo raccontarti una storia. Qualche anno fa, mentre tu ti divertivi a spezzare vite innocenti, c’era un ragazzo con tanti sogni. Sognava di essere felice, di riuscire a entrare nella squadra di calcio del college, un giorno. Sognava l’amore, sognava di poter presentare ai propri genitori la propria ragazza, la sera del ballo, e di poter andare in vacanza sulla costa del sud con la propria sorellina, e fumarsi una canna insieme ridendo sul tetto del garage. Sognava di rendere fiera sua madre, un giorno. Tutti sogni semplici, resi vani però dal massacro di uno psicopatico come te, John”.
La mia voce è calma, forse troppo. John mi guarda con aria interrogativa, balbetta qualcosa, ma io continuo a parlare. Ho poco tempo, prima che il secondino bussi sulla porta per dirmi che il mio tempo è finito.
“Hai distrutto la mia vita, uccidendo le persone a me più care. L’hai fatto senza un motivo, senza pensarci. Ma anche se io quel giorno non sono morto, anche io sono una vittima. La tua tredicesima vittima. Stai tranquillo però, non è tutto. Ho dovuto attendere due mesi, fingendo di interessarmi a te, per questo momento. Sai, esiste una quattordicesima vittima. Eccola”.

Eccitazione.
Nella busta ci sono tre fotografie. Nella prima, io e Sofia siamo abbracciati di fronte all’oceano, al tramonto. Lei è felice, sorride con i capelli scompigliati dal vento. Ha gli occhi semichiusi e una mano di fronte al viso, sfuocata.
John la guarda e comincia a sudare freddo, lo sento.
“Pezzo di merda, cosa hai fatto…”. Non gli faccio finire la frase, e gli metto davanti la seconda foto: Sofia è sdraiata sul letto, vestita soltanto con una maglietta che lascia scoperta la spalla sinistra. Con un braccio cerca di nascondere il viso: di fianco a lei ci sono io, che la bacio sulla fronte.
Nell’ultima foto, che gli faccio scivolare davanti mentre le lacrime cominciano a solcargli il viso, Sofia è sdraiata su un tavolo di legno, legata, completamente nuda. Il suo corpo è violaceo, ricoperto di tagli e contusioni. Gli occhi sono chiusi, gonfi, mentre le labbra sono viola. Il capo è rivoltato indietro, in una posizione innaturale. Tutto intorno al tavolo si allarga una grande chiazza di sangue scuro. John caccia un urlo, e si prende la testa tra le mani
“Vedi, John, ho cercato in qualche modo di provare quello che tu avevi provato, sterminando la mia famiglia. Ma non ci sono riuscito. Ci ho giocato per quaranta minuti circa, con questa troietta, piangeva e urlava, ma non mi ha soddisfatto. Questo è solo il mio primo esperimento, speravo tu potessi insegnarmi qual è il segreto. Puoi, John?”
Ma lui non risponde. Si tiene la testa tra le mani, urla, piange come un bambino a cui è stato proibito di andare al luna park. Faccio sparire le foto all’interno della valigetta, mi alzo e busso alla porta. Il secondino mi apre, e mi chiede cosa stia succedendo.
Ha paura di morire, gli rispondo.

Calma.
John mi vede, tra il pubblico, all’esecuzione. Ha gli occhi gonfi del pianto. Mi urla contro, dice ai suoi boia che io ho ucciso la sua unica figlia. Il delirio di un pazzo, pensano quelli.
Alle cinque e dodici minuti il suo cuore cessa di battere.

Vado al funerale, Sofia ci tiene ad accompagnarmi. Già, Sofia. Per chi mi avete preso? Non avrei mai potuto mettermi al suo livello. È stato sufficiente un botticino di cloroformio, rubato nell’infermeria del carcere, e una buona dose di trucchi per carnevale. Devo dire che il lavoro è venuto bene: Sofia non si è accorta di nulla, a parte il leggero mal di testa il giorno dopo.
Colpa del vino, le ho detto io.
John è morto con la certezza di aver perso l’unica traccia che era riuscito a lasciare al mondo.
Sono felice, dopo molto tempo, per la prima volta.

“È un duro lavoro il tuo, Alex. Non ti invidio proprio”, mi dice lei, tenendomi la mano, mentre la cassa di legno entra nel forno crematorio.

sabato 2 agosto 2008

Freie und Hansestadt Hamburg


Se cammini la sera tardi per le strade della tua città, rivivi sensazioni che probabilmente in fondo a te sai che mai dimenticherai. Di cui difficilmente potrai fare a meno, nei tuoi momenti di debolezza. Riaffiorano i ricordi felici, sopraffatti a volte da quelli che fanno più male: ma che siano belli o brutti, alla fine, li accetti comunque, perchè quando cammini per le strade della tua città, la sera tardi, fa anche un po' bene farsi un po' del male.

Se invece cammini la sera tardi per le strade di una città che non è la tua, magari a centinaia di chilometri da casa, magari in un paese straniero.. Beh le cose cambiano. Ti ritrovi con la testa del tutto altrove a dove avresti potuto immaginare. Rimani con lo sguardo perso nel vuoto per qualche attimo più del previsto, assapori ogni centimetro di questo "nuovo mondo personale" che hai di fronte. Ogni piazza è una scoperta, ogni strada una promessa, ogni locale aperto una nuova avventura. Magari ti appoggi al muretto in pietra antica che confina con il lago, e guardi la skyline di fronte a te, non riuscendo a distinguere ciò che di giorno pareva così chiaro.
Guardi i palazzi, e cominci a capire però anche tu quello che ti raccontava il tuo amico qualche giorno prima: entri nell'ottica dell'abitante del luogo, e puoi addirittura sentirti sicuro di te nell'affermare che questo o quel palazzo sono stati costruiti dopo la guerra, mentre quell'altro è sicuramente precedente.

Insomma, certi pensieri non ti toccano, quando cammini per una città che non è la tua: non è sicuramente perchè le cose fanno meno male, lo sai bene, ma lontano da casa hai la consapevolezza che l'aereo possa ridecollare, magari con qualche pezza, da dove era precipitato tempo prima.

Ti senti un po' parte della città, quando cammini la sera tardi per le sue strade.
Anche se parla una lingua diversa.

giovedì 26 giugno 2008

Paprika!


C’era una volta una bambina allegra e vivace, che viveva soltanto nei sogni altrui. Nessuno sapeva con certezza quando era nata, e chi erano i suoi genitori: alcuni sostenevano che lei esistesse già prima dell’invenzione del telefono, o della luce elettrica, mentre altri erano convinti che lei fosse nata ancor prima della scoperta del fuoco. Ma, alla fine, non era questo l’importante: Paprika (questo era il suo nome), esisteva da sempre, fin da quando c’era memoria, e il suo unico piacere era quello di viaggiare attraverso i sogni della gente triste, per poter regalare loro un piccolo ma preziosissimo momento di gioia.
Se un bambino si addormentava con le lacrime agli occhi, perché voleva semplicemente stare alzato fino a tardi, per finire di vedere il cartone animato preferito, Paprika entrava nel suo sogno profondo, lo prendeva per mano e lo conduceva attraverso una fantastica avventura, piena di animali fantastici, folletti e fate. Se invece Paprika s’insinuava nel sonno di un ragazzo innamorato ma non corrisposto, poteva trasformarsi in una giovane orientale, dagli occhi grandi e profondi: seduti di fronte al tramonto del Taj Mahal, lei gli sussurrava parole dolci all’orecchio destro, accarezzandogli i capelli e tenendogli la mano. Ogni tanto la piccola Paprika amava prendersi cura anche del sonno di qualche dolce nonnino, rimasto ormai solo: gli faceva vivere nuovamente tutte le avventure passate, incontrare amori giovanili, riassaporare momenti ormai sommersi dall’oblio.

C’era una volta un bambino di nome Orfeo. Anche lui non era un bambino come tutti gli altri, anche se non aveva speciali poteri come quelli di Paprika. Orfeo era un bambino solo: preferiva immergersi in un mondo fantastico da lui creato, piuttosto che giocare a palla con gli amichetti nel parco. Sapeva perfettamente a memoria i nomi dei sette regni che componevano Helroch, il suo impero immaginario: lui era il Re assoluto, tutti i sudditi lo amavano e gli erano riconoscenti per la sua grandezza e saggezza. Spesso a scuola veniva deriso e canzonato dai compagni di classe, per il suo bizzarro modo di vestire, ma a lui non importava. Era timido con le bambine: se una ragazza lo guardava negli occhi, lui era costretto da una morsa nello stomaco a tuffare lo sguardo nel quaderno sul quale disegnava piccole vedute di Helroch.
Non era mai stato un grande problema, questo, fino a quando non si era innamorato di Sofia. Sofia era una bambina che frequentava la sua stessa classe, e sedeva pochi banchi più indietro. Orfeo non aveva molti amici, quindi durante l’intervallo spesso se ne stava seduto in classe, appoggiato alla finestra, a guardare fuori. Un giorno Sofia gli si era avvicinata e gli aveva chiesto cosa guardasse. Era bellissima: averla così vicina aumentava la sua temperatura corporea; le parole, già poche solitamente, erano tutte bloccate in fondo al cuore. Sapeva che avrebbe dovuto rispondere qualcosa di intelligente, ma non era uscito nulla. Era rimasto impietrito, a guardare fuori, senza dire nulla. Lei, dopo pochi istanti, se ne era andata, con una impercettibile ma quanto mai significativa alzata di spalle.
Non era riuscito a togliersi quella scena dalla testa per tutto il giorno; dopo non aver toccato quasi nulla per cena, si era messo a letto. Sapeva di dover raggiungere i suoi sudditi a Helroch, ma quella notte, per la prima volta, si era addormentato col pensiero straziante di Sofia che rideva di lui, alle sue spalle, con le altre ragazzine della scuola.
E fu proprio quella notte che conobbe per la prima volta Paprika.

Paprika non riusciva a capire cosa non andasse in quel ragazzino, ma sentiva che era davvero triste. Qualcosa di grosso doveva essergli successo: aveva deciso di entrare nel suo sogno, per mettere le cose a posto e fargli dimenticare le proprie pene, facendogli vivere un’avventura mai vista prima.
Ma con suo grande stupore, appena entrata nel sogno di Orfeo, si era resa conto di che meraviglia ci fosse: nella mente di quel ragazzino esisteva un mondo meraviglioso, abitato da centinaia di personaggi uno diverso dall’altro. Sulla sommità di una collina erbosa si ergeva un enorme castello dalle mura bianche come l’avorio e le porte e finestre erano completamente dorate. Paprika si era avvicinata con cautela all’enorme ponte levatoio, quasi in punta di piedi sull’erba fresca. Due guardie sorridenti erano in piedi, di fronte all’ingresso, ma si erano fatte da parte con un inchino per permetterle di entrare.
Aveva percorso i lunghi corridoi guardandosi attorno con stupore: ma come poteva tutto questo essere frutto della fantasia di un solo bambino? Dopo diversi minuti, era riuscita ad arrivare alla sala principale del castello: il pavimento di marmo bianco era ricoperto da un enorme tappeto rosso, e appese alle colonne e alle pareti vi erano arazzi ricamati d’oro, argento e pietre preziose. Al centro dell’enorme sala, seduto su un trono intarsiato con scene di battaglia e mitologici scontri tra divinità, vi era Orfeo, avvolto in un mantello color porpora e con un’enorme corona rotonda sul capo. Aveva l’espressione triste, lo sguardo basso, e non si era nemmeno accorto della presenza di Paprika al suo cospetto.
“Maestà”, aveva deto lei, mimando un inchino, “Ho percorso centinaia di miglia per venire qui, a parlare con Voi, spero abbiate la cortesia di ricevermi”. Paprika non sapeva bene come comportarsi: solitamente era lei a reggere le fila del gioco, a creare le situazioni in cui ambientare le situazioni giuste per risollevare i cuori feriti dei suoi ospiti. Invece, nella mente di questo ragazzino con lo sguardo triste, tutto era solidamente costruito, nulla poteva essere modificato.
Era rimasta per qualche secondo in silenzio: poi, dato che il Re non rispondeva, aveva urlato: “EHI!!!!”

Orfeo aveva letteralmente sobbalzato sul suo trono: chi era questa buffa e impertinente bambina che si presentava al suo cospetto, in Herloch? Non era sicuramente uno dei suoi sudditi abituali, dato che li conosceva tutti, uno per uno. Non ebbe nemmeno il tempo di riordinare le idee, che lei gli si era avvicinata, gli aveva dato uno schiaffo sulla testa, facendogli calare la corona sugli occhi, e gli aveva urlato: “Sveglia Sire, sveglia!! Il villaggio va a fuoco!!”
E così ebbe inizio il suo rapporto con Paprika: spensero l’incendio al villaggio, grazie all’aiuto della cavalleria reale, ma fu solo l’inizio. Dopo quella prima notte, infatti, ce ne furono molte altre, durante le quali Orfeo e Paprika vissero le avventure più pericolose, affascinati e meravigliose che si possano immaginare: sconfissero draghi, costruirono acquedotti, salvarono la Ninfa che abita il lago e respinsero più volte le armate della pericolosissima Strega Onirika.
Orfeo si sentiva meglio, non solo nei suoi sogni. Giorno dopo giorno, infatti, aveva acquistato, grazie all’aiuto di Paprika, molta sicurezza in se stesso, anche nella vita di tutti i giorni. Era diventato un ragazzo sempre meno timido; aveva addirittura cominciato ad avere amicizie con qualche compagno di classe, e non doveva più voltarsi dall’altra parte quando una ragazzina gli rivolgeva lo sguardo.
Gli anni passavano, e Paprika continuava a frequentare i suoi sogni: era la migliore cosa che potesse accadergli.

Ma come mai Paprika, che raramente frequentava i sogni di qualcuno per più di due o tre volte, si era stabilita ormai da moltissimo tempo in Herloch, con Orfeo? La risposta va ricercata nel fondo del cuore della bambina che viaggia nei sogni della gente: si stava innamorando, per la prima volta nella sua lunghissima vita. All’inizio gli era sembrato buffo, questo piccolo ragazzino con una corona più grande della sua testa: poi, col passare dei giorni, il fascino dell’impero sconfinato creato dall’immaginazione di un comunissimo essere umano le aveva inebriato i sensi, mentre cresceva l’interesse nei confronti di un bambino che si trasformava lentamente in uomo.
I loro giochi si erano fatti sempre più intensi, fino a quando, una notte, si erano baciati sotto la luce delle tre lune che si rincorrono nel cielo di Herloch.
Per la prima volta Paprika aveva sentito quello che le persone chiamano “battito del cuore”.
In poco tempo era diventata la regina del regno di Orfeo, e le cose erano andate bene per diverso tempo. Si sentiva felice, e aveva trascurato i sogni delle altre persone tristi, per godersi questa felicità inattesa, che si interrompeva soltanto quando, al mattino, Orfeo doveva svegliarsi per tornare alla sua vita reale. Tutto sembrava perfetto.
Poi, una notte, tutto era finito.

Erano passati anni, ormai, dal loro primo incontro. Orfeo non era più un ragazzino solo e timido: grazie all’aiuto di Paprika aveva superato molti dei suoi complessi. Adesso, quando una ragazzina gli rivolgeva lo sguardo, non sentiva più il bisogno impellente di scappare, ma rispondeva sicuro con un sorriso deciso. Le compagne di classe avevano smesso di prenderlo in giro, e qualcuna gli aveva addirittura scritto dediche romantiche sul diario.
Orfeo sapeva che tutto questo era merito di Paprika, ma come spesso vanno queste cose, la riconoscenza è un bene assai raro da rilevare.
Non aveva smesso di frequentare Herloch tutte le notti, ma il suo rapporto con Paprika lentamente stava cambiando.
Un giorno, finalmente, era riuscito a trovare il coraggio di invitare fuori Sofia, la sua vecchia compagna di classe, oltre che suo primo vero amore. Sofia aveva accettato, e dopo poco tempo i due si erano fidanzati.
Paprika pianse, lei che mai aveva pianto prima, e per la prima volta desiderò che qualcuno visitasse i suoi sogni, per renderli più belli. Ma lei stessa era sogno, e questo suo desiderio non poteva essere esaudito.
Smise di frequentare i sogni di Orfeo, ma non solo. Da quel giorno in avanti non andò più in visita delle persone tristi, per rallegrarli, ma cominciò a trasformare in incubi i sogni delle persone felici e innamorate. Da sogno, Paprika si era trasformata in incubo: un incubo con il piccolo cuore spezzato.

Per diverso tempo Paprika non aveva avuto notizie di Orfeo.
Una notte che la malinconia si era fatta però troppo forte, aveva deciso di tornare a Herloch.
Il paesaggio era davvero diverso da come lo ricordava: le mura del castello erano diroccate, ricoperte di erbacce e arbusti; il villaggio era abbandonato, i campi erano bruciati.
Non c’era anima viva in giro. Paprika aveva varcato l’ingresso, percorso i corridoi che un tempo erano stati sfarzosi e ricoperti di ricchezze, ma che ora erano devastati dal fuoco e dall’abbandono.
Quando finalmente era giunta alla stanza centrale del castello, con le lacrime agli occhi, si accorse che una piccola figura era seduta sul trono, con il capo appoggiato alle mani.
Si era asciugata gli occhi con un movimento della manina, poi aveva timidamente chiesto chi era.
Era Orfeo. Non era però lo stesso ragazzo sicuro di se e felice che lei ricordava: era tornato a essere quel bambino timido e triste di un tempo, quello che lei aveva conosciuto anni prima.
Orfeo aveva alzato il capo, era saltato giù dal grande trono e le era corso in contro scoppiando in un singhiozzo. Erano rimasti lì, immobili, per delle ore che avevano il sapore di minuti.

Orfeo aveva avuto un incidente, dopo che Sofia lo aveva lasciato. Da due anni era in coma, nel letto di un ospedale, durante i quali aveva vissuto sempre in Herloch, sperando che la sua regina tornasse. Ma lei non si era più fatta viva. Senza Paprika Orfeo non era in grado di governare, ormai: aveva trascurato i suoi sudditi e aveva addirittura permesso alla strega Onirika di conquistare gran parte dei regni. Adesso abitava da solo le fredde mura del castello, che aveva perso il suo antico splendore.
“Rimani con me, Paprika, ricostruiamolo insieme. E questa volta sarà per sempre”, le aveva detto, con le guance rigate dalle prime lacrime che era riuscito a piangere, dopo molto tempo.
“Soltanto se sarà davvero per sempre”.
Poi, si erano baciati. Nel suo letto d’ospedale Orfeo, per una frazione di secondo, aveva sorriso.

lunedì 9 giugno 2008

Doccia breve


Una delle cose che mi piace più fare ultimamente è la doccia al buio.
Con le luci spente, l'acqua calda che ti scorre addosso ha un sapore del tutto diverso, provare per credere. Le mie docce, poi, sono molto cinematografiche, in questa fase.
Testa appoggiata contro il muro, occhi chiusi, lascio che i miei sensi si disattivino uno dopo l'altro. Rimango così per qualche minuto, con la testa sgombra; poi, inevitabilmente, un pensiero si infila e il flusso inizia.

Penso al film che ho visto il giorno prima al cinema, e al tizio seduto dietro di noi che rideva, da solo. Rideva di gusto. L'ultima volta che ero andato solo al cinema non avevo riso, però non mi era dispiaciuto molto. Da soli al cinema fa sfigati, oppure intelettuali di sinistra. Non sono nè l'uno nè l'altro, semplicemente il film faceva schifo a tutti quanti quelli che conoscevo all'epoca, e tant'è. Non mi sono mai fatto di questi problemi, a essere sincero. Penso che avesse una gran colonna sonora, e che un buon film si valuta anche da quanto sono azzeccate le musiche. Penso a quale sia la colonna sonora della mia vita adesso, e non penso che la si possa suonare a una festa. Ma che sia perfetta per essere ascoltata nelle cuffie, a volume medio, camminando da solo in centro, la sera tardi. Non è la colonna sonora che rende la tua vita commedia o tragedia, ma la chiave di lettura che ne dai.

Penso che ha ragione Carrie, che non tutte le storie d'amore sono poemi epici: alcune storie sono racconti brevi, ma questo non le rende meno piene d'amore.

giovedì 29 maggio 2008

Senza titolo





Ciao Monica. Ciao Nico.

lunedì 12 maggio 2008

Fine del mondo


Non c'è tempo, cazzo, levati dalla strada!!

Non gli piaceva essere scortese, di solito, ma adesso quel tizio sdraiato in mezzo alla strada gli aveva veramente fatto perdere la pazienza. Aveva si e no una quarantina di minuti e sapeva che sarebbe stato difficile arrivare a casa di lei in tempo, figuriamoci se su tutta la strada fino in centro avesse incontrato personaggi come quello.
Mise la mano sul clacson, ma il tizio non ne voleva sapere di spostarsi: si era, anzi, limitato a voltare la testa in sua direzione, mostrando un grande sorriso privo di scherno.

Ma che ti urli, cosa te ne frega ormai?

Quando Paolo sentì pronunciare queste parole, capì che nn ci sarebbe stato verso di convincerlo a farsi da parte: fece un piccolo pezzo di retromarcia, poi spinse il piede fino in fondo all'acceleratore, cercando di passare il più possibile vicino al fosso.
L'uomo disteso sull'asfalto riuscì a scansarsi un poco, ma l'auto gli passò comunque su entrambe le gambe: Paolo sentì solo l'urlo di dolore da dentro l'abitacolo, cercando di evitare di guardare nello specchietto retrovisore il risultato del suo atto impulsivo. Ma nn ce la fece: l'uomo si contorceva tenendosi un ginocchio, e urlava frasi incomprensibili verso la sua targa che si allontava a gran velocità.
Beh, durerà poco, pensò, cercando di scacciare il senso di colpa.

Percorse, spingendo non poco sull'acceleratore, il tratto di tangenziale: come aveva previsto non c'era praticamente nessuno in giro: alcune automobili erano parcheggiate malamente ai bordi della carreggiata, in stato di totale abbandono. Sapeva che tra pochi minuti anche lui avrebbe dovuto abbandonare la sua auto e proseguire a piedi: sicuramente in centro era impossibile accedere, ci sarebbe stata gente ovunque.
Il cielo cominciava a scurirsi, lentamente: le nuvole occupavano gran parte del cielo e una pioggia fine cadeva sull'asfalto, rendendolo scivoloso. Guardò l'orologio: maledizione, mancava poco più di mezz'ora. Doveva riuscire a raggiungerla prima che fosse troppo tardi, altrimenti non sarebbe riuscito a parlarle. Se solo si fosse deciso un po' prima...

Arrivato nella zona degli ospedali, si rese conto che le sue previsioni erano nuovamente esatte: una schiera di macchine era ferma, incolonnata come nei giorni di sciopero dei mezzi. La differenza era che ora non c'era nessuno sulle automobili. Abbandonate. Tanto non sarebbero più servite a nessuno. Scese senza spegnere il motore, e cominciò a correre sotto la pioggia verso il sottopasso che portava in centro.
Guardò il cielo: nulla faceva presagire che di li a poco sarebbe caduto il meteorite che avrebbe cancellato l'intera umanità.
Mentre imboccava il tunnel sotterraneo, realizzò che effettivamente era normale che non ci fossero segnali atmosferici dell'imminente tragedia: l'impatto era stato previsto nel centro del Brasile: in Italia non l'avrebbero nemmeno visto, forse. Al telegiornale avevano detto che la popolazione del continente americano sarebbe stata spazzata via immediatamente dall'impatto, mentre il resto del mondo avrebbe semplicemente cessato di esistere nel momento in cui il pianeta si sarebbe spezzato in due, per poi disintegrarsi. Rassicurante. Paolo non sapeva nulla di fisica e di geologia, ma adesso il modo in cui sarebbe morto era l'ultimo dei suoi problemi. Cioè, capiamoci: non avrebbe voluto morire, certo. Però di fronte alla cancellazione dell'intera umanità... Beh, la tua morte sicuramente ti preoccupa un po' di meno, rispetto alla prospettiva di essere l'unico ad andarsene tra il disinteresse generale. L'importante era solo riuscire a raggiungerla, prima che fosse troppo tardi.

Aveva covato dentro le parole giuste da dirle per quasi un anno, e adesso, poco prima che tutto finisse sul serio, voleva che lei sapesse. Romantico no? Dichiararsi all'amore della vita proprio nell'istante prima che un meteorite si porti via non solo lui e i suoi sentimenti, ma anche lei e il suo stupore e altri sei miliardi circa di persone. Per qualche giorno si era sentito patetico, soltanto a pensarci. Aveva rinunciato.
Alcuni suoi amici avevano deciso di aspettare la fine insieme, a casa di un tizio che Paolo conosceva di vista. Grandiso, aveva pensato. Il mondo finisce, e io me ne rimarrò seduto sul divano di un perfetto sconosciuto a bere birra. Sempre meglio però dell'alternativa: andare in chiesa con la famiglia, a pregare per le proprie anime. La madre di Paolo aveva ritrovato la fede sulla via di Damasco, e aveva costretto il marito e Claudia, la sorella più piccola, a partecipare a uno di quei gruppi preghiera che erano stati organizzati per l'occasione. Morire pregando un dio che si permetteva di cancellare in un colpo solo l'intera prole? Naaaa...
Poi, proprio mentre se ne stava seduto sul maledetto divano, aveva guardato fuori dalla finestra, e aveva deciso di andare da lei. Destinazione Torino, in poco meno di un'ora.

Pensava a queste cose, mentre correva tra le macchine abbandonate. Correva con tutta la forza che aveva in corpo, con la pioggia fine che gli graffiava il volto.
Pensava a quando l'aveva conosciuta alla festa di Maurizio: seduti sul divano avevano discusso su quali birre fossero migliori, se le danesi o le italiane.
Pensava a quando l'aveva rivista in aula studio, quella volta che lei gli aveva tenuto il posto e lui le aveva comprato una rosa bianca.
Pensava a quella volta che si erano quasi baciati sotto la statua col cavallo, ma poi un telefonino aveva suonato.
E pensava al film che aveva in testa da quando era partito. Lui che la chiamava per nome. Lei che si voltava, in silenzio. Lui che le metteva una mano sul viso, lei che provava a dire qualcosa e lui che la faceva tacere con un bacio che neanche nel migliore dei film d'amore. Il tutto ovviamente a rallentatore, mentre intorno il mondo cominciava a esplodere.

Arrivò davanti a casa di lei schivando diverse persone, nell'ultimo tratto. Il centro era un vero e proprio casino, c'era anarchia totale, come prevedibile. Il portone era aperto, nel cortile c'erano centinaia di persone che guardavano verso l'alto, incuranti della pioggia. Qualcuno piangeva, qualcuno teneva la propria mano in quella di qualcun'altro.
Mancavano pochissimi minuti allo schianto. Si fece spazio tra la folla, si mise a urlare il suo nome.
Ma non la trovava da nessuna parte. Eppure doveva essere li, lo sapeva. Lei gli aveva detto che avrebbe aspettato la fine in quel cortile, con le sue amiche.
Il telefoninò suonò. Era lei. Rispose

Dove sei?!

La domanda gli uscì come una minaccia, senza aspettare che lei gli dicesse nulla. Aveva il fiatone, i secondi passavano inesorabili, aveva bisogno di vederla, o avrebbe vagato all'inferno per l'eternità con quel peso. Un inferno particolarmente affollato, tra l'altro.

Sentì la risposta proprio mentre la terra cominciava a tremare, la gente a urlare. una fortissima esplosione squarciò il cielo, il palazzo di fronte crollò sommergendo gran parte dei presenti.

A casa tua

Una seconda esplosione, più forte della precedente, fece volare in aria diverse persone sulla strada di fronte, mentre zampilli di lava uscivano dai tombini come acqua dopo un tremendo temporale. La terra tremava come all'interno di un frullatore.

A casa tua. A casa tua. Questa frase gli rimbombò nella testa, per gli ultimi istanti in cui rimase vivo. Un sorriso, sul suo volto. Un sorriso amaro.
Lasciò cadere a terra il telefonino. Poi, il buio

mercoledì 7 maggio 2008

Amica


La mia amica Laura ha coraggio da vendere, lei. Non come me. L'ho vista piangere una sera; seduta (anzi, rannicchiata) sul divano, aveva un fazzoletto di fronte agli occhi lucidi, come se non volesse disturbare nessuno. I singhiozzi silenziosi attiravano la mia attenzione, ma quando lei se ne accorgeva, sorrideva a una battuta proveniente dal film che c'era in televisione. Massima ammirazione.

Poi

Poi si è rimboccata le maniche e ha preso la sua vita in mano. Ha ricominciato a studiare, ridere, vivere. Non ha dimenticato il suo assurdo amore, dopo più di tre mesi, ma l'ha covato nella parte più profonda del suo animo. Non ha disturbato nessuno, non ha imposto la propria sofferenza come un macigno su chiunque la circondi.
Certo, il cuore le rimbomba ancora come un pazzo, e puoi sentirlo davvero, quando passa in quella strada dove lui va a lezione, vorrei ben vedere. E sarà così ancora per molto tempo, lo sa e non ne ha paura. Sa di esserne ancora innamorata, tanto.
Ma poi si siede nel banco in fondo e si butta con tutta se stessa nella realizzazione del suo sogno.

La mia amica Laura mi ha insegnato tante cose, nonostante sia più piccola di me. Mi ha insegnato che nulla accade per caso, che tutto ha un significato. Anche la sofferenza di oggi, un giorno avrà una spiegazione. La mia amica Laura mi ha insegnato che a volte staccare la spina, sedersi e respirare a fondo, serve molto più che insistere a martellare sulla pietra più dura.
Mi ha insegnato che non tutto il male vien per nuocere, e che esseri meravigliosi come noi che vivono quasi esclusivamente con il cuore, alla fine vengono sempre premiati.
Ma, soprattutto, mi ha insegnato a volermi bene.

Quindi grazie, amica.

mercoledì 30 aprile 2008

Il punto


E allora qual'è il punto?

Giacomo guardò Ilaria negli occhi, bevve un sorso di birra tiepida e cercò di riordinare le idee.
Sapeva che quella domanda sarebbe arrivata, prima o poi, era nell’aria da una buona mezz’ora. Gli amici solitamente hanno la tendenza a non chiedere certe cose, anche se ne avrebbero tutti i diritti, pensò. Anzi, ne avrebbero il dovere! Invece no: se ne stano li, fermi e zitti, ti ascoltano in silenzio e ti dicono che tutto si aggiusterà. Ti guardano con uno sguardo sinceramente triste, ti danno pacche sulle spalle e ti dicono che presto le cose torneranno a girare per il verso giusto.
Ilaria era sempre stata differente. Aveva ascoltato tutta la sua storia, l’aveva guardato attentamente per diversi minuti, mentre lui snocciolava la questione, analizzando in modo il più possibile distaccato la sua recente depressione. Aveva annuito dopo alcuni passaggi, aveva scosso la testa dopo altri, ma non aveva mai commentato. Non lo aveva mai interrotto.
Poi, quando lui aveva finito di parlare, soddisfatto di come aveva elaborato con chiarezza e perfezione la situazione, lei aveva sorriso. Aveva guardato per qualche secondo nella sua tazzina di caffè, come se stesse cercando una qualche ispirazione. Poi aveva fatto quella domanda.

Lui e Giada si erano amati a lungo. Poi, un giorno, lei lo aveva lasciato. Lui non sapeva se lei avesse conosciuto un altro ragazzo, però era l’unica spiegazione che riusciva a darsi, quando mordeva le lenzuola nelle notti insonni. Spesso è più facile trovare qualcosa a cui dare la colpa, quando le cose non vanno, e forse Giada aveva fatto lo stesso ragionamento.
Aveva deciso di superare la cosa: spesso cercava di convincersi che alla sua età si credono speciali delle storie normali. Era uscito con diverse ragazze, dopo i fatti. Ma nessuna era lei.
Claudia, ad esempio. Lei era una ragazza splendida, bellissima, ambita dal cinquanta per cento almeno del suo corso. Erano andati a letto diverse volte, dopo che Giada se n’era andata, e sicuramente gli era piaciuto. Però, purtroppo, non era lei.
Paola, poi. Paola si era innamorata di lui, della sua capacità di raccontare le storie, di inventarsi un regno tutto loro dove scappare, quando il mondo era troppo brutto per viverci. Insieme, lui e Paola, avevano viaggiato, parlando al telefonino: una notte erano stati sultani di un piccolo ma ricco paese orientale, la notte successiva lei si era per incanto trasformata in una pericolosa ricercata, e lui in un poliziotto che la aiutava a fuggire. Paola aveva cercato di uccidersi, l’anno precedente, e gli chiedeva spesso, prima di chiudere la telefonata, come sarebbe potuta sopravvivere se lui non fosse comparso all’improvviso. Avevano fatto l’amore, una sera, guardandosi negli occhi, con le dita intrecciate e un sospiro soltanto. Ma non era lei. Paola aveva tutto per essere amata, per essere la donna giusta: tristezza, follia, bellezza, profondità, cultura. Ma non era Giada.
Forse il problema era che lui e Giada avevano continuato a sentirsi, di tanto in tanto: erano telefonate brevi, fanciullesche, per la maggior parte silenziose. Lei gli diceva “mi manchi”, “forse ho fatto un errore”. Lui respirava piano, cercando di rallentare il battito, sapendo che qualunque cosa avesse detto, non sarebbe servito. O forse era lui a essere sbagliato. Non era mai riuscito a concepire un rapporto con una donna privo della profondità degli occhi, dell’emozione del primo contatto fisico; nelle storie che lui amava raccontare c’era sempre uno sguardo individuato in mezzo a mille, che sapeva entrare nel profondo dell’animo e attanagliare le emozioni più intestine. Pensava fosse stupido perder tempo con qualcuno che non sa suscitarti quel tipo di emozioni: la vita è troppo breve per banalizzare se stesso con un amore che non è amore.
Il dolore, col passare dei giorni, era stato sostituito da una sostanziale apatia che gli aveva permesso di ricominciare a vivere, ma lo stare bene, beh, era un’altra cosa. Riusciva a passare anche due o tre giorni senza pensare a Giada, era tornato a ridere e a bere con gli amici di sempre.

Poi, aveva incontrato Ilaria al solito bar. Erano diversi mesi che non si vedevano e lei voleva essere aggiornata su tutto. Ilaria adorava Giada: aveva spesso sostenuto che erano perfetti insieme, la dimostrazione che l’amore davvero può avere un significato.
Poi, quella domanda.

“Giacomo, ho capito perfettamente la situazione”, aggiunse, visto che il nostro non era riuscito a far altro che borbottare qualcosa, “Ma il punto qual è? Mi hai raccontato tutta la storia come se fosse scritta su un libro dell’ottocento, come se l’avessi letta centinaia di volte. Hai perfettamente in mente la tua situazione, e non posso credere che il vecchio amico che io conosco così bene possa essere ancora qui, dopo tutto questo tempo, a piangersi addosso su quanto la vita sia stata ingiusta con lui. Tu non piaci alle donne, tu le fai innamorare. È un dono prezioso questo, non devi sottovalutarlo. Ma devi trovare questo maledetto “punto” adesso. Devi, dopo esserti raccontato per centomila volte questa storia, rispondere a una semplice domanda: e quindi?”

Giacomo guardò con rassegnazione il sorriso malefico che si era disegnato sulle labbra perfette della sua amica. Aveva ragione. Era perfetta la ricostruzione dei fatti, era perfetto tutto. Aveva addirittura ragione, quando pensava che Giada un giorno si sarebbe pentita di tutto. E quindi?

Quindi disse ciò che aveva nel cuore, l’ultima parte della storia, quella che non aveva raccontato a nessuno. Che aveva cercato in tutti i modi di nascondere anche a se stesso.
“E quindi, mia cara, io non voglio essere come tutti gli altri. Tutti avrebbero sorriso, dopo il lungo pianto, e avrebbero continuato a vivere la propria vita, buttandosi nel lavoro, nello studio, ma soprattutto tra le braccia di un’altra. Tutti avrebbero ascoltato canzoni tristi e coraggiose, avrebbero intonato Farewell di Guccini e voltato pagina su una storia che altro non era che una storia normale.
Ma io so che la mia era speciale. L’amore, se ce l’hai nel cuore, non puoi espellerlo. O lo annaffi, e lo curi, oppure ti marcisce dentro, e ti distrugge. Quindi vivrò la mia vita, ovviamente; continuerò a seguire i miei sogni, uno dopo l’altro. Ma non le dirò mai: “forse un tempo le mie parole potevano commuoverti, ma ora è inutile perché ogni volta che piangi e che ridi, non piangi e non ridi con me”. Perchè un giorno lei guarderà indietro a quello che siamo stati noi due, e io farò lo stesso: potremo avere un sacco di rimpianti, un sacco di rimorsi, oppure potremo pensare che nonostante il male che ci siamo fatti, siamo stati speciali l’uno per l’altra. Ilaria, capiscimi almeno tu: ecco qual è il punto. Io voglio continuare a essere speciale, e voglio che lei continui a esserlo. Perché quel giorno, in mezzo a mille, lei ha catturato il mio sguardo e l’ha fatto suo, e quando la guardo negli occhi, vedo ancora la stessa luce. Non posso pensare che non voglia significare nulla”.

Ilaria sorrise. “Eccoti, Giacomo. Sei tornato”.

martedì 22 aprile 2008

Incontro


L'uomo è seduto su una panchina di pietra, una di quelle che circondano la piazza.
Avrà 50, forse 60 anni, è grande e grosso. Ha una camicia che potrebbe coprire un'utilitaria in caso di pioggia, se volesse; un paio di enormi pantaloni scuri e due canoe al posto delle scarpe.
Mi correggo, non è seduto su quella panchina: ci è crollato letteralmente sopra, qualche minuto fa, e non si è più mosso. Singhiozza come singhiozzano i bambini di cinque anni a cui hanno portato via il lecca lecca. Il volto rotondo è ricoperto da una folta barba grigia, che si sta inzuppando delle lacrime che gli sgorgano dagli occhi, come un fiume che straripa dopo giorni di pioggia.
Tra le mani ha un foglio di carta, mezzo piegato e stropicciato.

Io sto passando proprio in quel momento. Il vuoto che ho dentro è in parte colmato dalla musica di De Adrè. Lui mi capisce, lui ha provato le stesse cose che provo io, le ha elaborate e trasformate in poesia. Sicuramente lo invidio per questo.
Una vocina nella testa mi stuzzica: "Hai sempre voluto essere triste e coraggioso come lui. Bene, ora che lo sei, non ti lamentare".
Incrocio lo sguardo dell'omone. Non cerca conforto, a differenza di me. Passo oltre, facendo finta di nulla, ma quegli occhi grandi e lucidi mi hanno aperto una voragine dentro.
Mi volto, lo guardo. Ha abbassato gli occhi, legge qualcosa.
Torno indietro, mi siedo vicino a lui, tolgo un'auricolare che suona Hotel Supramonte.
Non so cosa sto facendo, ma sto fermo li a guardarlo, seduto a pochi centimetri: il suo grosso torace si gonfia ad ogni respiro, ho la sensazione che possa esplodere da un momento all'altro.

Ma non succede. Anzi, si calma quasi, e il pianto diventa leggero, quasi impercettibile. Poi parla.

Ho perso una figlia, l'ho persa senza averla mai vista. Lei, la mia ragazza, era incinta, quando se n'è andata da me, per tornare al suo paese. In Argentina. Non me l'aveva detto e non potevo saperlo. Poi mi ha scritto anni dopo, dicendo che era felice, perchè aveva Paula. Mia figlia. Mi ha detto che dovevo andare a trovarle. Io non l'ho mai fatto, perchè l'odiavo per avermi lasciato qui solo, senza spiegazioni. Non le ho nemmeno risposto alla lettera.

Non lo interrompo, vorrei alzarmi per andarmene anzi. Ma rimango seduto, come impetrito.

Sono sempre rimasto solo, da quel giorno. Non sapevo se odiarmi o odiarla, se amarmi o amarla. Ho deciso di non scegliere, e ho vissuto senza vivere. Sono passati quasi vent'anni, lei mi ha telefonato e mi ha detto che Paula si sarebbe sposata. Le ho detto di lasciarmi stare, come uno stupido orso. Non ho perdonato, nemmeno così tanto tempo dopo, perchè? Perchè sono uno stupido, uno stupido orso.
Ora mia figlia ha avuto un incidente, e l'ho persa senza mai vederla.


Cazzo, penso. Dovrei trovare in fretta qualcosa da dire. Ma non riesco a dire nulla.
Lui mi guarda, per la prima volta da quando mi son seduto qui.
"Cosa ascolti?" mi chiede. De Andrè rispondo io. Gli porgo un'auricolare. Rimini sta suonando, in quel momento. Fa sparire la cuffia nella sua enorme mano, e l'avvicina all'orecchio.
Ascoltiamo insieme, senza parlare. Guardo la gente che passa: c'è chi ride, chi urla, chi parla, chi bacia e chi litiga al telefono.
Quest'uomo enorme, le sue lacrime, la sua storia... stanno risucchiando via il mio dolore. So che tornerà, tra quelche istante, ma per ora no. Si è fatto carico di tutta la mia sofferenza, condividendo con me la sua.

Finita la canzone mi restituisce l'auricolare. Mi ringrazia e si alza. E cammina verso una via laterale, che imbocca senza voltarsi.
Io rimango seduto ancora per qualche minuto. Vorrei correre a casa di lei, per abbracciarla. Ma rimango seduto, con la musica nell'unica auricolare che mi rimane.

E ora siedo sul letto del bosco che ormai ha il tuo nome
ora il tempo è un signore distratto è un bambino che dorme
ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano
cosa importa se sono caduto se sono lontano
perché domani sarà un giorno lungo e senza parole
perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole
ma dov'è finito il tuo cuore, ma dov'è finito il tuo cuore.

venerdì 18 aprile 2008

Asilo


Ci sono poche cose da dire quando il tuo cuore è talmente pieno di sentimenti così intensi e vivi.

Amore, Rabbia, Dolore, Malinconia, Freddo, Euforia, Disagio, Pulsioni di vita, Pulsioni di morte, Cattiveria, Speranza, Calore, Nostalgia.

Se provi a focalizzarti su di uno, ecco che gli altri sentimenti si incazzano di brutto, vogliono le loro attenzioni, urlano, si fanno più prepotenti. Perchè i sentimenti sono dei mocciosi di sei anni che ti vogliono tutto per se, e sono disposti a tutto pur di farsi prendere in braccio, anche a riempirti di calci lo stomaco.
Allora tu, che sei grande (sarà servito a qualcosa invecchiare?), li metti tutti buoni seduti in una stanza piena di giochi e di caramelle, cerchi di dare il giusto spazio a ognuno di loro. Ma sono stronzi, i sentimenti. Cominciano a litigare tra di loro, a prendersi a pugni, mentre li guardi impotente. E ti ritrovi da capo.

Te ne esci a fumarti una sigaretta, anche se hai smesso anni prima, e li lasci al loro destino. Che si azzuffino, non te ne frega un cazzo.
Allora il più piccolo di loro, ma il tuo preferito, esce nel cortile, ti viene vicino con gli occhi lucidi e ti tira i pantaloni con le manine appiccicose.
Fai finta di non vederlo, finchè non incroci il suo sguardo. Capisci che non è colpa sua. Butti il mozzicone in un angolo: lo prendi in braccio, lo accarezzi, e lui ti fa vedere un suo gioco che si è rotto.
Gli sorridi, gli prometti che gliene comprerai uno nuovo. Lui abbozza un mezzo sorriso.
Poi, per mano, entrate di nuovo nel palazzo. Gli altri mocciosi hanno smesso di picchiarsi, sono esausti, qualcuno disegna sui muri, qualcuno dorme sdraiato sul pavimento freddo.


Sono solo pompe sodio potassio che si attivano. Sai perfettamente quali sono i circuiti che ti provocano tutto questo. E saperlo non serve a un cazzo.

sabato 12 aprile 2008

Buon compleanno


Buon compleanno.
Soltanto questo.
Buon compleanno a te che mi facevi ridere, e ridevamo insieme.
Buon compleanno a te che quando dormi tieni la bocca leggermente aperta e i pugni chiusi davanti al viso.
Buon compleanno a te, con quel filo di mutandine che spuntano dai pantaloni che mi facevano venire strane idee.
Buon compleanno a te, che mi chiamavi con quel soprannome stupido ma che alla fine adoravo.
Buon compleanno a te che hai inventato la tana.
Buon compleanno a te, che se aspettavi me, chissà quando mai ci saremmo baciati.
Buon compleanno a te, che hai tutta una serie di facce buffe e sei un libro aperto, per chi sa leggerti.
Buon compleanno a te che balli con l'iPod nello orecchie, fregandotene di cosa pensano gli altri.
Buon compleanno a te che hai la voce da treno.
Buon compleanno a te che mi hai regalato un sacco divertente.
Buon compleanno a te che mi hai insegnato chi è Pennac.
Buon compleanno a te che non sopporti il solletico e ti viene quella vocina stupida quando ti stuzzicano in quel modo.
Buon compleanno a te che sai far sentire in colpa un tavolo di ragazzini quando vogliono ordinare una birra e tu sei stanca e vuoi andare a dormire.
Buon compleanno a te che vai in bici sui marciapiedi e hai una risposta pronta per le vecchie scorbutiche che ti urlano dietro.
Buon compleanno a te che non sai cucinare, ma che sai stupirti ogni volta di fronte a un piatto di sushi, una pizza di quel nostro posto e un gelato.
Buon complanno a te, che ami le cose pelose e metti l'aggettivo "enorme" davanti a ogni cosa che ti piace.
Buon compleanno a te, che volevi un pony in regalo.
Buon compleanno a te, che non ti ricordi le cose, ma alla fine ti ricordi sempre tutto.
Buon compleanno a te, che coi capelli corti e gli occhi da orientale sei bella come una giovane mamma.
Buon compleanno a te che parlavi in -otto.
Buon compleanno a te, che salvi il mondo nei panni di "Ormonina", e sai volare, diventare invisibile e un sacco di altre cose.
Buon compleanno a te che sai vestire una salopette senza sembrare un muratore.
Buon compleanno a te che, come dice jovanotti, hai preso la mia vita e ne hai fatto molto di più.
Buon compleanno a te che amavi farti "impallare".
Buon compleanno a te, che guardi tutti quei programmi idioti alla tv, ma il problema non è leggere novella 2000, il problema è leggere solo novella 2000.
Buon compleanno a te che non posso far altro che aspettare, finchè il cuore non diventerà pietra.
Buon compleanno, a te. Che ho incontrato per caso e hai cambiato per sempre la mia vita. E ne è valsa la pena.

giovedì 3 aprile 2008

Una sera, dopo lavoro


Guidava piano, ma non per scelta. Il traffico era sempre lentissimo, la sera, quando usciva dall'ufficio. Era stata una giornata stressante: il suo capo, un porco di prima categoria, aveva insistito con le solite allusioni sessuali: lei non lo sopportava, ma era costretta a subire con uno stupidissimo abbozzo di sorriso.
Eppure un tempo aveva amato il suo lavoro alla galleria: lo stretto contatto con artisti famosi, la possibilità di esprimere la propria creatività, l'odore della pellicola appena stampata...
Un vecchio signore alla guida di una vecchia bmw, indeciso su quale strada prendere, le fece perdere l'ennesimo semaforo verde: sbuffò, ma nulla più. Solo qualche settimana prima avrebbe pigiato con tutta la forza che aveva il pugno sul clacson, ma da tempo ormai le cose erano cambiate. Non sapeva se era rassegnazione o stanchezza, ma nulla suscitava in lei stimoli alla rabbia, ormai. Forse era un problema, ma per ora si godeva questa parentesi di apatia.
Pensò a sua madre, erano diverse settimane che non la sentiva, da quando aveva scoperto il fatto. Forse avrebbe dovuto chiamarla, per rassicurarla che tutto procedeva tranquillamente. Prese il cellulare dalla borsa, compose il numero, ma poi lo gettò sul sedile del passeggero senza avviare la chiamata.
Al semaforo successivo accese una sigaretta, abbassò di poco il finestrino e tirò un paio di boccate lunghe e intense, cercando di trattenere il gusto dolciastro della Camel nei polmoni per il maggior tempo possibile.
Finalmente stava uscendo dal centro cittadino, il traffico cominciava a sfoltirsi e il tragitto verso casa diventava sempre più confortevole. Il sole cominciava a tagliare il proprio profilo dietro i monti, acquistando le tonalità del tramonto, e trasferendole a tutta la natura circostante.

Sono queste le cose per cui vale la pena vivere, pensò.

Arrivò di fronte alla propria abitazione, parcheggiò la macchina e spense il motore. Si guardò nello specchietto per un attimo, prima di scendere: la frangia era ordinata, il trucco perfetto, come al solito. Era sempre stata una bella ragazza, e ora era una bella donna. Sofisticata ma semplice, sapeva fingere un sorriso al momento giusto, sapeva trattare con gli uomini. E il nuovo colore dei capelli la ringiovaniva di diversi anni.
Scese dall'auto, prese la valigetta sul sedile posteriore, chiuse la portiera, inserì l'antifurto satellitare. Camminò sul vialetto che conduceva alla porta della piccola villetta monofamiliare in cui viveva, cercando di assaporare il profumo dei fiori che cominciavano a sbocciare sugli alberi e sugli arbusti. Giulia, la figlia dei vicini di casa, era seduta sul praticello di fronte alle abitazioni: giocava con un cavallino di legno e una macchinina rossa. Strana accoppiata, pensò, sorridendole e salutandola con la mano. La bimba rispose con uno sguardo innocente. Pensò che le sarebbe piaciuto avere dei figli, un giorno.
Infilò la chiave nella serratura, aprì la porta, entrò.
Tutto era in ordine, come aveva lasciato quella mattina, prima di uscire. Appoggiò la valigetta sulla poltrona, accese la televisione, senza audio, e andò in camera da letto, dopo aver premuto il tasto "delete" della segreteria telefonica.
Sapeva che c'erano dei messaggi per lui, e non voleva ascoltarli.
Si spogliò ripiegando con cura i vestiti, ripose con delicatezza il reggiseno e le mutandine nel sacco della biancheria sporca, e si infilò nella doccia.
Appoggiò la testa contro il muro, a occhi chiusi, mentre l'acqua calda l'accarezzava come nessun uomo era mai riuscito a fare. Rimase immobile per circa una ventina di minuti, poi uscì dalla doccia, si infilò l'accappatoio bianco e un asciugamano a turbande intorno ai capelli bagnati.
Andò in cucina, prese nel frigo alcuni sacchetti argentati, nella dispensa il pacco del pane confezionato e preparò due panini. Riempì un bicchiere di latte per trequarti, e poi ripose in frigo gli avanzi. Sistemò tutto sul vassoio, e si recò verso lo studio.
Aprì la porta della stanza nella quale aveva rinchiuso suo marito dieci giorni prima, ed entrò.
Lui era ancora legato alla sedia, completamente nudo, come lo aveva lasciato.
Era un po' preoccupata, perchè negli ultimi giorni aveva perso i sensi diverse volte, si era indebolito troppo. Non voleva che morisse, non ancora. Alcune chiazze di sangue macchiavano il pavimento, al di fuori del telo di nylon che aveva deposto con cura sotto la sedia: un tremito di rabbia le percorse la schiena, per poi rientrare immediatamente.
Era sveglio, e quando lei accese la luce, cercò di voltare lo sguardo per non essere accecato. Tossì, sputando alcune goccie di sangue. Non poteva parlare, dopo che lei gli aveva tagliato la lingua, il secondo giorno.
Si sedette su una sedia libera, davanti a lui, distante cinque metri circa. Non voleva sporcare di sangue l'accappatoio nuovo. Mangiò la cena fissandolo, incurante dei suoi lamenti confusi. Guardò la foto del loro matrimonio, appesa sulla parete di sinistra: lei sorrideva, abbracciandolo; lui guardava di lato. Avrebbe dovuto capire già allora.
Erano stati sposati cinque anni, prima che lei scoprisse che si vedeva con Nadia, la sua segretaria. Che banale.
Aveva pianto, all'inzio, poi però aveva capito che non ne valeva la pena. L'aveva colpito con un martello alla nuca, una sera, mentre guardava la televisione. Lui era caduto, e avevo macchiato di sangue il copridivano. L'aveva odiato per questo.
L'aveva trascinato qua, nel suo studio; l'aveva spogliato e legato alla sedia. Non gli aveva più parlato, da allora. Lui aveva urlato, all'inzio. Poi aveva cercato di convincerla a liberarlo, fingendo di non capire perchè si trovava in quella sconveniente situazione. Poi aveva ammesso e chiesto scusa, e finalmente lei aveva potuto, senza dire nulla, tagliargli la lingua con le forbici trinciapollo. Da allora erano passati otto giorni, durante i quali aveva martoriato il suo corpo con minuzia, ma nutrendolo quel tanto che bastava, amorevolmente.
Qualcuno suonò il campanello, improvvisamente. Posò il vassoio sul pavimento, scrollò le briciole dall'accappatoio, sorrise a suo marito che la guardava con gli occhi svuotati di ogni traccia di vita, spense la luce e andò verso la porta.

"Nadia, scusa se non mi sono fatto sentire per diversi giorni, ma ho avuto un problema con mia moglie. Finalmente è fuori città per qualche giorno, vorrei che tu venissi da me, questa sera, sarà fantastico"

Questo era l'sms che si era decisa a mandare alla segretaria di suo marito, quella mattina, con il cellulare di lui, dopo qualche giorno di titubanza.
Andò verso la porta, fischiettando un motivetto che aveva in testa, buttò un occhio allo schermo della televisione, che trasmetteva il notiziario serale.
Aprì il cassetto della credenza vicino all'ingresso, estraendo il martello con la mano sinistra, e nascondendolo dietro la schiena. Poi aprì la porta, con un largo e sincero sorriso.

Si erano incontrate solo una volta, in passato, alla cena di Natale di tre anni prima, chissà se si sarebbe ricordata di lei. Era curiosa.

"Ciao, Nadia", disse, con entusiasmo, stringendo con una forza quasi isterica le dita della mano sul manico di legno.