lunedì 26 febbraio 2007
Tramonto
Cammino a testa bassa, trascinando lo zaino e la borsa della spesa, al centro di via Garibaldi, a Torino. Sono da poco passate le diciotto, forse le diciotto e un quarto: le mura della città, a quest'ora, si impregnano di un rosso mai rassegnato a trasformarsi in tenebra, mentre la gente, che si affretta a rimettere i piedi in casa, cammina rapida, evitando scontri frontali per un soffio.
Il pullman numero 4 mi ha appena vomitato alla fermata, insieme a molti altri sconosciuti e a un ragazzino non più vecchio di dieci anni, scappato con un portafoglio stretto nella destra: l'ho guardato sgusciare via come il vento, voltarsi e sorridere nella mia direzione, forse sfidandomi, forse no. Sono combattuto per un attimo: potrei corrergli dietro, e diventare un eroe. Vince però la voglia di tornare a casa: ho ancora cena da preparare, il mio corpo ha un inusuale bisogno di una doccia.
Mi avvio a passo svogliato, quando a trenta metri circa, la vedo. Bella, nella sua giacca nuova, bianca come il latte, una ragazza forse di poco più giovane di me, mi viene incontro: il suo passo è deciso, si guarda attorno come una modella sulla passerella, durante la settimana della moda milanese. Ha un paio di occhiali da sole grandi, che le coprono gran parte del viso, e sembra essere a suo agio nonostante la luce del sole sia ormai un ricordo, e la ricca via torinese sia illuminata soltanto dai lampioni gialli, appesi stancamente alle pareti settecentesche. Con la mano destra sorregge, aggraziata, una borsa non firmata: le gambe si intravedono, fasciate da calze probabilmente autoreggenti nere, proprio dove termina la gonna, poco sotto il ginocchio. La ragazza angelo termina in un paio di stivali marroni, di quelli che si vedono nelle vetrine di via Roma, alla moda, ma la moda che non stanca. La guardo, e come sempre in questi casi, il tempo rallenta, e tutto è più lento: i suoi lunghi capelli neri, che spuntano al di sotto di un cappellino alla francese, svolazzano mentre cammina e volta lo sguardo nella direzione di un'altra vetrina illuminata. La osservo, e lei, ad un certo punto, mi nota: non riesco a vedere i suoi occhi, dietro gli occhiali scuri, ma siamo ormai a pochi metri, e un sorriso appena accennato si disegna sul suo viso perfetto, mentre la linea immaginaria che collega il mio sguardo al suo, non si spezza. La via, improssivamente, è deserta: esistiamo soltanto io e lei, esseri diversi che camminano in direzioni opposte.
Sento lo sparo, che infrange il silenzio nella mia testa, proprio quando sto per raggiungerla: mi brucia improvvisamente il collo sul lato sinistro: mi fermo, e dopo che istintivamente ho portato la mano nel punto in cui mi ha colpito, la vedo poi ricoperta di sangue. Ma non abbastanza: il proiettile infatti mi ha sfiorato, ha dilaniato la mia pelle e pochi millimetri di carne, per poi procedere oltre. Mi volto, stranamente tranquillo, e vedo il ragazzino che poco prima era sceso dal pullman, corrermi incontro, qualche decina di metri più indietro, con il portafoglio ancora in mano. Il suo sguardo da beffardo è ora mutato in spavento: due uomini gli vengono dietro, vestiti di nero, uno di essi stringe una pistola fumante nella mancina.
Mi volto nuovamente, con sorpresa: il proiettile che mi ha aperto una lunga cicatrice sul collo, ha terminato la propria corsa nel cuore della ragazza. Sulla sua giacca nuova, bianca come il latte, si sta lentamente aprendo una chiazza rossa, intorno a un foro non più grande di una moneta da cinque centesimi. Lei si è fermata, ha l'espressione di una bambola di porcellana. La borsa è caduta a terra, le sue braccia sono staccate dal corpo, indecise. Improvvisamente cade in ginocchio, sospira leggermente, solleva lo sguardo verso il cielo e si inclina pericolosamente in avanti. Io, che fino a quel momento ero rimasto immobile a guardarla, mi butto in ginocchio davanti a lei, e con il mio corpo interrompo la sua caduta: la afferro tra le braccia, le sostengo il viso, e le sfilo gli occhiali da sole, buttandoli a terra. La sento fragile, indifesa, leggera. Il ragazzino ci sfreccia di fianco, per un secondo butta uno sguardo su di lei, per poi continuare la sua fuga, cercando di confondersi tra la gente; i due uomini neri sopraggiungono poco dopo, ma non si curano di noi: pensano solo al fuggitivo.
Lei respira debolmente, ha gli occhi chiusi, i capelli che le coprono parte del viso: un rivo di sangue le spunta all'angolo sinistro della bocca perfetta, disegnando un a piccola S rossa tra la guancia e il mento. Le sposto i capelli dal viso, lei apre gli occhi, che come avevo immaginato sono verdi, grandi e leggermente orientali. Le sorrido.
Mi guarda, con aria innocente, non credo si capaciti che la vita sta scivolando via dal suo corpo. "Credevo sarebbe stato diverso", mi dice. Tossisce appena, il sangue ha ormai inzuppato la giacca bianca: faccio scivolare la cerinera di qualche centimetro, perchè non le stringa il collo, le accarezzo i capelli, mentre la sorreggo. "Come ti chiami?", le chiedo, mentre la appoggio al mio braccio destro, perchè stia più comoda, in questi ultimi minuti. "Giulia, mi chiamo Giulia", mi risponde. Il respiro si fa un poco più pesante, ha un fremito, le sue mani stanno diventando fredde. "Son contento di averti conosciuta, Giulia", le dico, e la bacio: la bacio sulla bocca, con gli occhi chiusi, il sapore metallico del sangue mi invade il respiro, mentre le sue labbra morbide incontrano le mie. Il suo respiro è caldo, silenzioso. Immagino per un attimo il proiettile che la ucciderà, sporco del mio sangue che le riposa a pochi centimetri dal cuore. Mi stacco da lei, riapro gli occhi, e vedo una lacrima scendere lenta lungo l'occhio sinistro, ancora più grande e bello: è ormai immobile, tra le mie braccia.
Morta.
La stringo ancora una volta a me, le richiudo la cerniera della giacca, la bacio sulla fronte, la adagio a terra, e mi rialzo.
Mi accorgo che intorno a noi si è riunito un nugulo di curiosi, che mi guardano con aria terrorizzata e invadente.
Mi apro un varco tra di loro, mentre mi alzo il bavero della giacca, e riprendo a camminare verso casa. Ho ancora la cena da preparare, e il mio corpo ha un'inusuale bisogno di una doccia.
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7 commenti:
Un momento qualsiasi di una surreale serata torinese..
davvero avvincente nella sua semplicità..
Spero che la doccia ti abbia rilassato..:)
quella strada mi ha lasciato un che di poetico anche a me...ti dirò...bella foto...se te la rubassi???
ruba pure, diffondila e fanne buon uso ^^
Cico, eccezionale mistura di noir e poetica dell'innamoramento. E di testo che ti fa sentire il bisogno di un doccia.
bellissima... davvero...
Grazie a te del commento... Ti ho linkato!
...ti alzi il bavero della giacca e ti richiudi nel cappuccio della tua felpa blu con il laccio destro mangiucchiato...
cicuz.
mi manchi!
pi_
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