lunedì 2 marzo 2009
Corrispondente di guerra
Mi presento. Sono Francesco Di Mauro, ho trentasette anni, e sono un corrispondente di guerra. Il mio lavoro è semplice, non ha bisogno di spiegazioni: quando in qualche paese del mondo c’è un conflitto armato di un qualche interesse per l’opinione pubblica, la testata giornalistica per la quale lavoro mi mette sul primo volo internazionale e in poche ore mi ritrovo sul campo. Nei primi quattro giorni devo garantire un pezzo al giorno, magari corredato di qualche fotografia che rappresenti bambini mutilati, donne sfigurate dal pianto, abitazioni dilaniate dalle bombe; quando invece lo scontro comincia a stabilizzarsi è sufficiente scrivere un resoconto o due a settimana: i lettori vogliono scoop nuovi, e un giornale che fa della morte il proprio frontespizio ha bisogno di novità, di calore, di freschezza.
Sono un corrispondente di guerra: il mio compito è raccontare il dolore e la sofferenza altrui, renderla un prodotto vendibile tra una pubblicità di pannolini e un servizio di alta moda: sono bravo nel mio lavoro, forse uno dei migliori. Proprio per questo ogni volta che entro in una sala stampa, o mi reco dietro le linee di combattimento per preparare un servizio o condurre un’intervista, i colleghi mi salutano con cenni ricchi di malcelata ammirazione.
Ho una bellissima moglie che si chiama Chiara, con la quale ho due figli: Giacomo e Alice. Giacomo ha quattordici anni e gli abbiamo appena comprato un motorino per andare a scuola, Alice ne ha sei ed è già in seconda elementare, perché essendo nata in marzo le abbiamo fatto fare la primina. È una bambina molto intelligente e precoce, dice sempre che vuole fare la giornalista come papà, da grande.
Sono un corrispondente di guerra, e la scorsa settimana mi hanno mandato in questo piccolo ma turbolento stato africano, nel quale l’ennesimo dittatore ha sollevato dall’incarico il predecessore con l’aiuto dell’esercito e il supporto euforico del popolo e quello tacito del governo degli Stati Uniti. Ma quest’ultima informazione ovviamente non dobbiamo scriverla, noi corrispondenti di guerra, perché tanto alla gente non è questo che interessa. La gente vuole il sangue, la morte, la sofferenza, non i giochi di potere che sono alle spalle di tutti questi orrori. Mia moglie Chiara non voleva che venissi in questo piccolo stato africano, perché erano già due mesi che non tornavo a casa: mi trovavo in Cecenia per raccontare gli scontri contro il potere centrale per l’indipendenza, e prima ancora avevo raccolto le testimonianze dei marines Usa in Iraq e Afganistan. Ci sarebbe stata la festa di compleanno della piccola Alice, e non avrei dovuto perdermela di nuovo, diceva. Inoltre ero già stato via da casa il giorno di Natale, che avevo trascorso in India, prima di recarmi sul confine col Pakistan per scrivere sulle tensioni locali. Alice capirà, le avevo detto velocemente, al telefono satellitare, prima di chiudere per fotografare le milizie locali in festa per la vittoria contro un gruppo di contadini ribelli.
Sono un corrispondente di guerra, e amo il mio lavoro. Per riuscire a raccontare la sofferenza di questi popoli a chi se ne sta comodamente seduto sul divano, ci vuole eleganza, trasporto, creatività. Ma nello stesso tempo è necessario un certo distacco, per evitare di essere coinvolti troppo nelle dinamiche del conflitto, ma soprattutto per riuscire a dormire la notte. E io sono uno dei migliori, e la notte dormo come un bambino.
Due giorni fa ero seduto in un bar con Alì, uno dei miei contatti locali: Alì mi raccontava di come alcune delle famiglie più ricche del paese fossero riuscite a creare una specie di controllo assoluto sulle risorse alimentari: in tal modo tutta la popolazione avrebbe potuto accedere alle scorte pagando un prezzo maggiorato, e ciò avrebbe garantito al governo del nuovo leader di avere fondi freschi per poter finanziare la guerra contro i focolai ribelli che si accendevano continuamente.
Mentre parlavamo una bomba era esplosa nel palazzo vicino al nostro: io e Alì ci eravamo buttati sotto il tavolino del bar, ma io, corrispondente di guerra ormai esperto e abituato a certe situazioni, non mi ero perso d’animo. Avevo estratto dalla borsa la mia macchina fotografica, ed ero riuscito a ritrarre alcuni dei miliziani che facevano irruzione nello stabile, con le armi in pugno. Probabilmente un covo di ribelli sotto attacco. Il cellulare aveva suonato, nel frattempo: avevo guardato lo schermo, era Chiara. Fortunatamente avevo rifiutato la chiamata appena in tempo per riuscire a fotografare un ragazzino che correva fuori dal palazzo, a piedi nudi, disarmato. Avrà avuto non più di quattordici anni, l’età del mio Giacomo: correva con tutta la forza che aveva in corpo verso il bar dove mi trovavo io, gli occhi sbarrati dal terrore, la bocca contorta da una smorfia disperata. Alle sue spalle due soldati miliziani avevano aperto il fuoco: tre colpi alla schiena e il ragazzo si era accasciato senza emettere un suono. Una foto incredibile.
L’avevo subito mandata al mio direttore, con un pezzo di fuoco nel quale raccontavo l’accaduto, infarcendolo di particolari e di emozioni.
Sono un corrispondente di guerra, e raccontare le emozioni fa parte del mio lavoro.
Oggi mi è arrivata la notizia dall’Italia: la fotografia raffigurante il giovane giustiziato dalle milizie ha vinto uno dei più importanti premi foto-giornalistici a livello europeo. Un riconoscimento che corona una carriera che mi ha reso un corrispondente di guerra famoso e rispettato. Ho immediatamente chiamato alcuni dei miei colleghi e il mio direttore, per dare la notizia. Le televisioni dell’intero Paese hanno contattato il mio giornale per avermi come ospite nei loro programmi di approfondimento.
Sono un corrispondente di guerra famoso e rispettato. Mi trovo dietro le quinte di uno dei teatri più belli e prestigiosi del mondo: tra pochi minuti salirò sul palco, dove, di fronte a un gran numero di autorità e celebrità riceverò il premio per la mia fotografia e il lavoro svolto nel paese africano.
Un premio importante e prestigioso, che corona la carriera di una vita.
Il telefonino vibra nella mia tasca, mentre il moderatore della serata pronuncia il mio nome e cominciano a scrosciare gli applausi del pubblico. È un breve messaggio di Chiara, mia moglie.
“Hai dedicato la tua vita a raccontare la distruzione del mondo, e così facendo hai distrutto la nostra vita. È finita, addio”.
Spengo il cellulare, il mio viso non tradisce nessuna emozione. Salgo sul palco e saluto con la mano, mi inchino e sorrido.
Sono un corrispondente di guerra. Questo è il mio lavoro, questa è l’unica cosa che ho sempre saputo fare.
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