giovedì 30 novembre 2006

Occasione persa


Ci sono quei momenti in cui una persona desidera ardentemente una cosa.
Avete presente di cosa sto parlando, sicuramente: un prurito in fondo allo stomaco, diventa giorno dopo giorno sempre più fastidioso, ma allo stesso tempo allettante. Fate finta di nulla, subito subito: siete sicuri che sia una cosa che saprete controllare. Ma poi non è così. E perchè non è così? Perchè, vi renderete conto, in fondo non volete controllarla. Vi piace quella sensazione che vi da, come una sbornia senza bisogno di sboccare per forza l'anima, per intenderci.
Col passare dei giorni, irrimediabilmente, ci si ritrova con un desiderio che brucia, una voglia matta da sfogare.
Non si parla solo di sesso, ma anche di amore, amicizia, lavoro, scuola, ecc: milioni e milioni possono essere le cose che ardentemente si desiderano.
Ecco. Oggi potevo cogliere l'occasione per placare un desiderio che da molto tempo ruotava nelle mie viscere.
Era li, la porta del treno era aperta, bastava fare due passi e sarebbe finito tutto. O per lo meno cambiato.
Nulla. Sono rimasto immobile, a guardare il treno che ripartiva.
E il treno, dicono se passa una volta e non sali, sei fregato per sempre.

Non è stupidità, la mia. Ma poco ci manca.

lunedì 27 novembre 2006

Hell or Paradise?


Ho deciso:
la prima cosa che farò, quando sarò morto, sarà andare a un concerto di De Andrè.
L'unica domanda è: sarà inferno o paradiso?

mercoledì 22 novembre 2006

Tu che dici?


La domanda che mi lascia spesso confuso, è:
Ma in questo mondo, sono pazzo io, o sono pazzi gli altri?



Un piccolo Andy Warhol, vive in me

venerdì 17 novembre 2006

Se, una sera in discoteca


Capita, ogni tanto, che anche io vada in discoteca.

La musica è assordante, le luci accecanti, un incantesimo capace di stordirti e assuefarti allo stesso tempo, capace di toglierti il respiro e creare rotanti cerchi intorno alla tua testa. Qualcuno lo chiama sballo, io lo chiamo rottura di coglioni.
Una massa di corpi si muove all'unisono, mentre io, ricoperto di sudore per la maggior parte non mio esco dal branco per sbattermi come un geco stanco contro un muro in cartapesta.

"Tu non ballare?"

La ragazza tedesca che mi sta parlando tiene in mano un bicchiere di plastica con aria maliziosa: non riesco a capire quello che mi dice perchè il mastro dei pupazzi sta incalzando con il beat. Annuisco con aria indecisa, non amo far la figura del fesso.
La mia risposta ambigua sembra stupirla, si avvicina e mi rivolge ancora la parola, come se fossimo vecchi amici del liceo: "Io non sono italiano, io vengo di Germania". Poi, come per rinforzare il proprio patriottismo o forse per ostentare una certa sicurezza che ha duplice fondamento nella padronanza della lingua e nell'identificazione come essere pensante, incalza: "Io essere tedesco".
Il fatto che usi il maschile per definirsi mi lascia per un attimo interdetto, anche se potrei essere io ad aver capito male. Se è un uomo, sono davvero troppo ubriaco. Le rispondo con la classe che mi contraddistingue, cercando di essere ironico ma nello stesso tempo interessante, che "Io invece essere italiano, ma parlare come scemo straniero perchè volere mettere lei a suo agio".
Lei sorride: non ha colto probabilmente la sottigliezza del mio colloquiare, probabilmente ha capito che non riesco a sentire bene il suo profumo, perchè si avvicina e si strofina "innavertitamente" sul mio braccio destro. Odora di gelsomino, anche se non ne sono sicuro, non ho mai avuto grande padronanza nel distinguere gli aromi, e questo non fa di me un serial killer psicopatico.

Il dialogo si dipana poi sul classico "delpiùedelmeno", per poi arrivare al fatidico: hai una sigaretta? Io non fumo, e non voglio mentire. Le do un bacio sulla guancia che significa buonanotte, prendo la mia giacca e con lo sguardo che segue i miei calci mi avvio verso l'uscita: amo immaginare lo sguardo di lei che mi buca la schiena con aria interrogativa.
Non darle spiegazione mi ha tolto dall'imbarazzante posizione di renderle noto che, mentre mi raccontava del suo campeggio sul lago di Como, quando era ancora adolescente, non riuscivo a veder altro che un intreccio di braccia che la avvinghiavano e bocche che la baciavano con la passione di un momento.

Erasmus.

Non sarei stato "quello di questa sera", sarei stato semplicemente l'italiano che non c'è stato. O il gay frocio del cazzo italiano, che non l'ha scopata quella sera che non aveva trovato nulla di meglio.

martedì 14 novembre 2006

Non buttiamoci giù


Io, voi, non vi conosco bene. L'unica cosa che so è che state leggendo questa pagina. Non so se siete felici o no; non so neanche se siete giovani o no. Ma.. cioè, spero che siate giovani e tristi. Se siete vecchi e felici, mi posso immaginare che magari sorridete sotto i baffi leggendo quando dico: mi ha spezzato il cuore. Ricorderete sicuramente qualcuno che vi ha spezzato il cuore, a voi, e penserete: Oh, si, ricordo come ci si sente. Ma non è vero, vecchi gufi contenti. Forse ricorderete di esservi sentiti... diciamo, piacevolmente tristi. Ricorderete di aver ascoltato musica e mangiato cioccolato in camera vostra, o di aver camminato da soli lungo un ponte, imbacuccati in un cappotto sentendovi tristi e coraggiosi. Ma come fate a ricordarvi come ci si sente quando ogni boccone di cibo vi morde nello stomaco? Vi ricordate il sapore di vino rosso che torna su e finisce dentro un water? Vi ricordate quando tutta la notte sognavate che eravate ancora insieme, e la vostra lei vi parla dolcemente e vi tocca, e così ogni mattina vi svegliate e siete costretti a rivivere tutto da capo? Vi ricordate quando vi incidevate le sue iniziali nel braccio, con un coltello da cucina? Vi ricordate quando siete andati troppo vicino all'orlo del binario del metrò?
No? Beh, allora chiudete quel cesso di bocca.
E ficcatevi il sorrisino su per il vostro culo appassito.

Nick Hornby - Non buttiamoci giù

lunedì 6 novembre 2006

Vita da romanziere


Ho iniziato a scrivere un "romanzo". Forse sarebbe meglio definirlo novella, o racconto, però per ora sono ambizioso e punto in alto, a tal riguardo.
Protagonista un personaggio molto simile a me, una vecchia signora, un amico immaginario, e forse un gatto parlante.
C'è posto anche per Wendy di Peter Pan, per alcuni dei miei più intimi amici, e per sentimenti presi a casaccio.
Mi imporrò di scrivere almeno 3 pagine al giorno, altrimenti finisce come le altre cose, che non le porto mai a termine.
Vi terrò informati, fatemi gli auguri!

domenica 29 ottobre 2006

Vampiro


È un po’ che non scrivo nulla. No, non sono morto, anche se forse mi darebbe un tocco di cinismo, affermare senza alcuna ombra di dubbio che probabilmente in parte lo sono. Guardo un film senza voglia, mi vengono in mente diverse frasi scollegate tra loro, ma forse se scavo in fondo al mio inconscio, un senso lo trovo.

Il battaglione, tiene il passo del soldato più lento.

Mi immagino ad una di quelle feste, quelle che si vedono sempre nei film americani: sono un vampiro, un cazzo di vampiro maledetto che si nutre delle emozioni degli altri: la vedo nell’altra stanza, fasciata nel suo vestito rosso, che parla senza voglia con due idioti che sicuramente non hanno meno voglia di me, di scoparsela. Lo sguardo di lei è magnetico, la principessa non ha ancora trovato un principe che la salvi dai due stronzi. Forse le serve un vampiro.

Inutile, come la birra senz’alcool.

Un vampiro non si butta nella mischia, aspetta le sue prede dietro un angolo buio. Due collegiali che non sfigurerebbero sulla copertina di una rivista scandalistica, si baciano appoggiate alla parete. Il sogno americano continua, uno dei due stronzi è andato a prenderle da bere. Non gli basta essere inutile, anche banale. Penso alle raccomandazioni che sua madre di sicuro gli ha fatto, prima che uscisse: non prendere droghe, non bere troppo, torna presto. Saluto con un cenno della testa un’amica d’infanzia, la cui mano termina con la mano del suo di sempre ragazzo. Dovrei invidiare un certo tipo di felicità che sta nella sicurezza della reciprocità, ma questa sera sono un vampiro che ha bisogno soltanto di succhiare emozioni altrui, prima di morire irrimediabilmente di fame.

Avvicino la principessa fasciata in rosso, ignoro lo stronzo che sta proponendo di mostrarle la sua collezione di farfalle. Mio dio, gli stereotipi esistono ancora. La prendo per mano, e la conduco lontano. Lo stronzo alle mie spalle rimane con la bocca semi-aperta, mentre il suo amico ritorna con un bicchiere di troppo, ormai.

Voglio cambiare la mia materia preferita.

Parlo poco alla principessa, mentre si chiede dove mi ha già visto prima. Nella mia mente si alternano le immagini: potrei portarla fuori per un cappuccino, per lasciarla poi col conto da pagare, oppure andare a casa e masturbarmi, pensando a lei. Certo, c’è sempre l’ipotesi che sia talmente fatta da farsi una canna e accettare di venire a letto con me, ma preferisco lasciar fuori quest’ipotesi dalla mia mente: amo le sorprese di questo tipo.

Le matricole non si fanno mai, le overdose: il primo anno si passa sempre per stronzi.

La principessa mi segue in camera, le faccio sentire un paio di dischi, mento dicendole che penso a lei, quando le ascolto da solo. Lei si commuove alle lacrime, mi accarezza una mano seduta, a piedi nudi, sul mio letto. Mi bacia, con le lacrime agli occhi. Le asciugo via, per solidarietà, chiedendomi di che colore possano essere le mutande, sotto un vestito rosso. Ci tengo, a certe cose.

Quand’è l’ultima volta che ho scopato da sobrio?

Mi sveglio. Solo, nel mio letto. Non sono morto, anche se forse mi darebbe un tocco di cinismo, affermare senza alcuna ombra di dubbio che probabilmente in parte lo sono.

domenica 8 ottobre 2006

Audrey


"Audrey Hepburn was the best that we could possibly be. She was perfectly charming and perfectly loving. She was a dream; And she was the dream that you remember when you wake up smiling."
Si, la bellezza ideale esiste. Peccato che appartenga a un'altro tempo.

domenica 1 ottobre 2006

Ma era una serata bellissima


Ripensavo a quel film. Non era nè inverno nè estate, siamo stati - quanto, due ore? - su quelle scomodissime poltrone, che però è il miglior cinema che si potesse offrire. Quel cinema che una volta non era un multisala, dove se volevi andare a vedere l'ultima pellicola americana, dovevi aspettare almeno un paio di settimane.
Quel film non era stato poi un gran bel film, anzi forse siamo stati entrambi delusi, ma sinceramente non ce lo siamo detti: io non volevo deluderti, e tu forse sai mentire meglio di me. Io stavo iniziando un'università che ancora non sapevo quanto mi avrebbe appassionato, tu mi raccontavi dei tuoi corsi, di come funziona e di tutto il resto. Cazzo, mi interessava sul serio.
Prima di passare a prenderti, mi aveva telefonato quel mio amico che forse conosci: ricominciavamo a frequentarci, a quel tempo, e ricordo che ho davvero pensato che gli volevo bene. Che - si dai - io e lui avremmo dovuto vederci più spesso. Si, proprio così pensavo.
Poi eravamo andati. Tu avevi uno sguardo quasi imbronciato, metteva quasi paura, mentre guardavi il protagonista, con la storia che iniziava a prender forma. Per via del buio, pensavo io. Poco prima che iniziasse il film, dimenticavo, mi avevi parlato di lui, di come non sapevi, di come eri indecisa sul da farsi. Che però eri contenta così, tutto filava.
C'era anche una ragazza antipatica, che conoscevi poco: ricordo di averla immediatamente odiata.
Non ricordo se ero innamorato in quel periodo, forse si, sicuramente di una per cui non ne valeva la pena.
Ricordo solo che in quel periodo, eri sempre più bella. E in quella sala buia, con la maglietta azzurra, lo sguardo imbronciato e illuminato dallo schermo, ti avevo sbirciata. Eri come un richiamo alla vita, mi ero confessato. E forse quella sera - si lo ammetto - un po' ti avevo desiderata.
Poi ricordo di averti portata a casa, forse avevo addirittura contato i battiti del mio cuore, mentre percorrevo quella breve strada, fino a casa tua: quel che è certo è che nn avevo sicuro schiacciato, su quell'acceleratore che in altre occasioni non avevo risparmiato.
Il resto, è storia. Non ricordo bene quello che ho pensato, tornando a casa, quella sera. Non ricordo nemmeno come ho sprecato il giorno dopo, e quello dopo ancora.
Forse è per quello, che proprio oggi ci stavo ripensando, ma allora non potevo saperlo. Una volta a casa avevo bevuto un gocio di birra ghiacciata, e forse avevo anche guardato un pezzo di televisione. Era una serata normale, del resto, come tante.
Ma era una serata bellissima.

sabato 30 settembre 2006

Neuroni


Come cazzo si spengono, quelle maledette pompe sodio-potassio che, nel nostro cervello, stanno alla base di qualunque stato mentale, compresi dunque i sentimenti?

sabato 23 settembre 2006

Inaspettato, il bisogno di te


Un bacio, poi un altro e un altro ancora.
Toccarti un fianco, il tuo profumo e il tuo sapore, per la prima volta su di me.
Sono sospiri questi?
Il coraggio ti volta le spalle, il cuore ingordo ne vuole ancora.
Inaspettato, il bisogno di te...
Un bacio, poi un altro. E un altro ancora.

lunedì 18 settembre 2006

The hardest part


La parte più difficile fu proprio sedersi su quella sedia.
Fu la parte più difficile, spegnere la sigaretta sul bordo del tavolo, alzare lo sguardo e non dire una parola.
La parte più difficile...
La cosa strana fu aspettare una chiamata, un messaggio, o per lo meno uno squillo; fu strano, leggere le vecchie lettere, respirare il tuo profumo sul cuscino.
La parte più difficile fu posare gli occhi sulle vecchie foto, fu riguardare quel buffo film che tanto ti aveva fatto ridere, quella sera che sembravi più bella del solito, in quella maglietta azzurra.
La parte più difficile fu provare a cantare la nostra canzone sotto la doccia, che tanto le lacrime si confondono con l'acqua fredda.
La cosa più difficile fu il ricordo di quel sapore dolce nella bocca, la cosa più strana fu invece scoprire come nessuna delle ragazze intorno a me, in fondo, aveva quel sorriso.

The hardest part was lettin' go, not taking part... Was the hardest part...

(p.s. Si, la foto l'ho fatta io. E mi piace)

venerdì 15 settembre 2006

Se


Questo è un pensiero scritto quasi un anno fa, che pubblicato sul giornale per il quale tuttora lavoro, aveva destato molte critiche.
Oggi, rileggendolo, pensavo a quei momenti, con un sorriso.


Se Gesù vivesse oggi, non vestirebbe firmato, e non mangerebbe prodotti modificati geneticamente.
Se Gesù vivesse oggi, non guarderebbe i talk show di Costanzo o Bruno Vespa.
Se Gesù vivesse oggi, non farebbe lo scudo umano a baghdad, ma piangerebbe guardando le immagini del coreano che urla non voglio morire in tv.
Se Gesù vivesse oggi, voterebbe a sinistra, e ascolterebbe Pink Floyd, King of Convenience e Police.
Se Gesù vivesse oggi, tramuterebbe gli alcolici in acqua nelle discoteche e fumerebbe una canna con un ragazzo di colore sulla spiaggia.
Se Gesù vivesse oggi non capirebbe i reality show e leggerebbe le poesie di Boudelaire.
Se Gesù vivesse oggi probabilmente si ubriacherebbe a ferragosto e farebbe il bagno nudo al chiaro di luna, se vivesse oggi difficilmente parteciperebbe ad un forum politico.
Se Gesù vivesse oggi non truccherebbe la macchina, se Gesù vivesse oggi il suo migliore amico sarebbe un animatore turistico e si innamorerebbe di una ragazza con gli occhi color del mare e il sorriso ingenuo; se Gesù vivesse oggi non odierebbe chi lo insulta dandogli del capellone senza lavoro, e rimarrebbe disgustato vedendo un suo amico picchiato solo perchè gay, di colore o semplicemente diverso.
Se ne andrebbe, vivesse oggi, rifiutando di darl la vita per questo mondo, per i vari Bush, Berlusconi e potenti del mondo, per Bin Laden o per Saddam, si rifiuterebbe di sacrificarsi per i cori riazzisti negli stadi, per la violenza durante le manifestazioni di pace, per la rovina delle multinazionali, per lo sfruttamento e la violenza sui minori, per gli stupratori e per il turismo sessuale.
Se ne andrebbe con gli occhi lucidi, se ne andrebbe e nessuno nemmeno se ne accorgerebbe.

lunedì 4 settembre 2006

Addio, presidente


Massimo Gramellini non dovrebbe più occuparsi di calcio.
Lo dice una persona che, da anni ormai, pende letteralmente dalle labbra (o meglio, dalla penna), del giornalista torinese: ho divorato centinaia e centinaia di "Buongiorno", sul quotidiano La Stampa, sorridendo, ridendo e soprattutto crescendo.
Pochi giorni fa ha parlato di Inter, definendola la "nuova" squadra più antipatica del campionato, vista la dipartita ormai, per qualche tempo, della detentrice dell'infelice primato, ovvero la Juventus.
Il fato ha voluto che questa infelice definizione, ironicamente, fosse partorita in stretta concomitanza con la prematura scomparsa di Giacinto Facchetti, bandiera prima e simbolo poi del prestigioso club di via Durini.
Quale squadra, in Italia, può vantare un personaggio di tale spessore? Dolce, burbero e orso forse, ma rappresentante di quei valori che il calcio ha dimenticato...
Quale squadra ha avuto tra le sue fila uno come Peppino Prisco, che con la sua ironia, competenza e equidistanza nelle opinioni, ha fatto divertire e riflettere generazioni di tifosi.
E quale squadra, infine, può vantare un presidente come Massimo Moratti: si, un bambinone stupido al quale i familiari hanno dato un giocattolino perchè non rovinasse le imprese di famiglia, ma nello stesso tempo un proprietario e un presidente "innamorato" della sua squadra, padre prima che datore di lavoro, cui mai sono interessati i profitti ad ogni costo; il suo unico desiderio era che il suo popolo sognasse, coltivasse una fede... Poco importava se poi, anno dopo anno, le soddisfazioni latitavano: ci si beveva su, e pronti a ricominciare.
L'Internazionale di Milano sarà una squadra di perdenti, di illusi, di eterni secondi: urlatelo pure ogni domenica in ogni stadio italiano. Ma l'Internazionale di Milano è una squadra in cui i protagonisti sono Uomini veri, fatti di una pasta di cui si è dimenticata la ricetta. L'antipatia... beh, è un'altra cosa.

Addio, presidente.

Torre di Pisa


Tutti, a Pisa, si fanno scattare una fotografia, credendosi originali: eccoli mentre, con un sorriso soddisfatto, sorreggono la torre pendente, che probabilmente senza il loro intervento crollerebbe a terra.

Io no. Io a 13 anni mi sono fatto fare una foto mentre con altrettanto soddisfatto sguardo cercavo di spingerla giù, la torre. I pisani increduli non capivano, alcuni livornesi applaudivano divertiti.

Piccoli terroristi alternativi crescono.

venerdì 25 agosto 2006

Fammi uscire



Un bambino mi sta urlando che vuole uscire. Lo sento, sento i suoi piccoli pugni picchiare contro la porta, sento il suo isterico pianto farsi largo: io sto seduto su quella sedia, e faccio finta di non sentirlo. Il sole è basso all’orizzonte e sta gettando lunghe impronte su tutto il prato intorno. L’ambientazione è quella giusta per un disco di Belle e Sebastian, una vecchia caa in campagna, l’erba, il tramonto, il profumo di menta misto a quello dell’erba bagnata (già, è piovuto da poco).

BUM, BUM, BUM! “Fammi uscire, non ce la faccio più a star qui dentro, fammi uscire, fammi...”

Lo interrompo con un rapido movimento della testa, e per un attimo quel bambino insistente la smette di far rumore.Lei è sdraiata li, su una panchina che, abbracciata dalla ruggine, ha un sapore di antico che si sposa alla perfezione con la scenografia. Dorme? Fa finta? questo non lo so. Ha riso, fino a qualche minuto fa, mi ha chiesto di ballare senza musica, ma io non l’ho fatto. Mi imbarazza, e non l’ho voluto fare. Allora lei ha ballato da sola, a piedi nudi sull’erba bagnata, con la gonna bianca da zingara gitana che lasciava intravedere le gambe affusolate; ha ballato con la camicetta annodata in vita, i capelli non lisci e non ricci che ciondolavano davanti al viso, lasciando intravedere solo a tratti i suoi occhi chiusi.

“Devi farmi uscire, non posso stare qua, ho paura, lasciami uscire, sei cattivo, sei cattivo! CATTIVO!”

Continua, quel bambino, a insistere. Ma non posso farlo uscire da li, sarebbe un rischio troppo grande. Torno a guardarla: ricordo quando l’ho conosciuta per caso in quella libreria. Lei voleva un libro, io ero li per sentire l’odore della cultura. Mi piace ogni tanto camminare tra gli scaffali, accarezzare le copertine e immaginare quale meraviglioso mondo sia racchiuso in quell’infinita distesa di lettere in ordine solo apparentemente sparso. Da quel giorno l’ho rivista diverse volte, per un caffè, per una birra o addirittura per un film al cinema: ma oggi è diverso.

BUM BUM BUM!“Fammi uscire!”

Nessuno la vedrà mai come la vedo in questo momento. E forse nemmeno io avrò di nuovo un’occasione così grande, se non apro quella porta e faccio uscie quella peste urlante. Lei lo ha fatto, oggi lo ha fatto, per me. Ha aperto alla bimba che da sempre vive in lei. La bimba che da piccola affondava le dita nella marmellata, la bimba che si arrampicava sull’albero per mangiare le ciliegie. E adesso dorme su quella panchina, o fa finta. E aspetta che io apra la mia porta, e faccia uscire il suo compagno di giochi. Devo smettere di crescere, almeno per oggi.
Clack, Clack, Clack.
Un raggio di sole colpisce il bambino che poco prima urlava, che per lo stupore si copre in parte il viso con le manine.
Esci, sei libero. Esci e gioca con lei.

martedì 22 agosto 2006

Ritorno


Fine delle vacanze, almeno per quel che riguarda il blog.
Piccolo bilancio: ho chiuso pensando di aver capito cos'era la felicità. Oggi invece son convinto che non potrò mai più avere a che fare con lei. Si è vero, non bisognerebbe mai considerare una sensazione, soprattutto negativa, come assoluta.
Ma quando la vita nn sembra girare, lasciateci almeno il piacere di piangerci addosso per il tempo necessario. Poi penseremo a risollevarci.

lunedì 3 luglio 2006

Felicità


Mi sono scervellato, davvero, lo giuro, non vi sto mentendo.
Ho cercato di capire cosa sia veramente la felicità. Non c'ho dormito la notte addirittura a volte, pensavo di essere sulla strada giusta, poi i pensieri crolalvano su se stessi e rimanevo con l'amaro in bocca. E infelice. Di sicuro dunque la felicità non è cercare di capire cosa sia la felicità stessa.
Potrei scrivere un post di trentamila parole, per elencare la serie di ragionamenti che ho fatto... Però non ne ho bisogno: ho scoperto il segreto!
Bene: chiudete gli occhi e pensateci:
- chi è più felice, tra chi riceve un regalo o chi lo fa?
- chi è più felice tra chi ama e chi è amato?
- chi è più felice tra chi fa una buona azione e chi ne trae i benefici?

Non ho dubbi a riguardo: la vera felicità sta nel sentirsi dire una semplice parola: grazie.
Quando qualcuno prova gratitudine nei nostri confronti, per qualunque motivo, a quel punto siamo veramente felici. Non serve dire altro, magari rispondiamo un "prego" imbarazzato, ma in realtà anche la giornata peggiore acquista un minimo di senso, se qualcuno ci dice quella parolina magica.
Comincio io dunque. Grazie di aver letto il mio blog. Vi voglio bene

Comparse di vite altrui


Ognuno vive la propria vita come se fosse un film, in linea di massima. Anzi è meglio dire che guardando la vita di ognuno, si potrebbe pensare che sia realmente come un film, di cui Ego (ovvero la persona che si considera) è convinto di essere il protagonista. Siamo noi gli eroi; esistono poi diversi attori non protagonisti e qualche miliardo di comparse.
Fa effetto pensarci: nei film c'è sempre uno buono, bello, bravo, simpatico. C'è sempre uno che ha le capacità speciali, che ha la missione da compiere, che salverà il mondo quando gli si presenterà l'occasione; gli altri sono "accessorie" comparse.
Noi tutti pensiamo di essere quell'eroe romantico. Farebbe effetto pensare di essere, in realtà, soltanto la comparsa del "film" del nostro vicino di casa ad esempio.
E forse anche un po' di tristezza.

Quando termina quell'illusione, di essere noi l'eroe? Ditemelo, voglio essere pronto per quel momento.

mercoledì 28 giugno 2006

Placebo & Positivismo


Ieri sera concerto dei Placebo. Ricordo quando li ho conosciuti, Bryan Molko e soci: era forse il ginnasio, il mio amico Pietro mi ha prestato, forse con lo scopo di convincermi a mutare le mie preferenze musicali (ascoltavo infatti 883 e tunz tunz discotecara) i primi due album della band inglese: Placebo e Without you I'm nothing. Devo dire la verità: non li ho nemmeno ascoltati, allora. Anni dopo invece il primo concerto, il viaggio interminabile fino a Pordenone (città da non commentare) con gli amici di sempre: il resto è storia. Grazie quindi proprio a quegli amici, che mi hanno aperto "con la forza" un mondo al quale non posso più rinunciare, oggi come oggi: è paradossale quanto io sia diverso rispetto ad allora, grazie soprattutto alla musica e ai libri, ma nel contempo io rimanga un quattordicenne sempre e comunque.

Non è questo comunque l'argomento del post, ma più che altro una considerazione venutami in mente non più di due giorni fa, sviluppando la nuova "Teoria del positivismo sempreecomunque", di Domenico Spagnolo in arte Cico: ogni cosa brutta che succede nel quotidiano, può essere vista come l'unico modo possibile che la vita aveva per evitarci un male peggiore.
Buchi una ruota, devi fermarti per cambiarla, magari sotto un acquazzone: bestemmi, ti incazzi contro il fluire cosmico degli eventi... In realtà ti sei appena salvato da un incidente mortale, visto che 25 km più avanti un tizio non avrebbe rispettato lo stop, e ti avrebbe accarezzato con il radiatore le tempie. Ad esempio. La teoria prevede vari livelli di "salvaguardia" della natura rispetto all'individuo, a seconda della gravità degli eventi successivi, ma anche riguardo il fattore temporale: ad esempio, la tua ragazza ti lascia e si mette con un camionista polacco, il cui bicipite ricorda il tuo torace. Soffri e stai male come un cane, perchè l'amavi; in realtà ti sei salvato, perchè l'avresti sposata, avreste avuto un figlio, il quale a sedici anni dopo un colpo di sole avrebbe ucciso con una mazza da baseball (regalatagli per il suo quindicesimo compleanno) te e la stronza che ti ha appena lasciato.
Quindi, la prossima volta che un piccione ti lascia un ricordino sul vestito nuovo, mentre vai a un importante appuntamento di lavoro, e ti devi fermare a una fontanella per pulirti, o tornare addirittura a casa per cambiarti... Non ti lamentare: ti hanno appena salvato la vita.

mercoledì 21 giugno 2006

What's my age again?


Non era una gran canzone, a pensarci bene, What's my age again dei Blink 182.
Erano tre americani provenienti da chissà quale underground, rivestiti da tonellate di auto-ironia e voglia di scopare (scusate il termine oxfordiano): melodie composte da al massimo tre (riuscitissimi, percarità) accordi, testi raccolti a bracciate nell'immaginario pre-adolescenziale.
Avrei dovuto odiarli, quelli li. Invece no; una frase di quella canzone mi torna tuttora alla mente, come un monito proveniente da un passato che non mi appartiene: Nobody likes you, when you are 23.
A diciotto anni ti sembra semplicemente una frase ad effetto, urlata al mondo da uno poco più vecchio di te che probabilmente non ci crede nemmeno molto: che problemi vuoi che abbia a piacere uno che vende dischi e butta i soldi da un areoplano in un video. Anzi, cominci forse a credere che è proprio su quello che dovrai battere, in futuro: dovrai darti l'aria di uno sfigato, sempre a metà tra il triste e il misterioso: conquisterai non compassione, bensì ammirazione.
Arrivi poi all'età descritta dalla canzone: tutto sembra andar discretamente bene, hai un numero sufficiente di amici, una persona da amare che risponde con la stessa moneta, ambizioni e prospettive nella media. Non è vero, pensi, che non piaci a nessuno.
Poi succede che le certezze diventano dubbi: le persone amano complicarsi la vita, lo sapevi, ma fino a questo punto?


Il lavoro poi, il lavoro... la scuola e il lavoro


Ma si, certe cose si rimarginano, ci vuole solo del tempo.


Guardali, ti fissano, ti giudicano male, ti sottovalutano, non ti stimano...


A breve le cose cambieranno, i sogni non soni irrealizzabili, puoi fare quello che vuoi. Cazzo, hai poi solo 23 anni...


Nobody likes you when you are 23, ricordi?


Ecco. Cominci a pensare che sia vero. Non è autolesionismo, cercare compassione o trovare scuse. Non piaci a nessuno quando hai 23, 24, 25 anni: non ti danno possibilità, non vogliono sentirti parlare, perchè sei troppo giovane per capire certe cose. Te ne rendi conto solo dai ventitrè anni di certe cose, e poi quando ne avrai circa ventotto\trenta, certe cose non le penserai più: in silenzio ti inserirai in quella società che non ti voleva, e zitto seguirai la scia.


A trent'anni però. A 23, 24, 25, cerca di ribellarti, maledizione. Nobody likes you when you are twenty-three, semplicemente perchè non ti piace come sono diventati loro, ecco perchè.

Sei confuso, forse, questo post lo dimostra.

martedì 13 giugno 2006

Time is running out


L'uomo ha creato il tempo per paura della morte: classificando infatti ogni attimo, anche il più impercettibile, in oreminutisecondi, ha la possibilità di avere un certo controllo sulla vita che passa, sulle azioni che si susseguono. So ad esempio che tra 14 minuti esatti andrò a studiare, so che tra sei ore circa mangerò cena, che tra due giorni ho un esame, che tra un mesetto andrò in vacanza, che tra una cinquantina d'anni dovrei morire. Da sicurezza tutto questo.
Però l'uomo ha fallito. Infatti proprio questa necessità di sminuzzare la vita in piccolissime porzioni di esistenza da catalogare ha creato la morte e la fine di tutto, e più ci penso meno mi capacito di come abbiamo fatto ad essere così stupidi... Sono gli anni che passano, non noi: abbiamo posto un timer all'esistenza, razionale e necessario forse, ma pur sempre auto-imposto.
Perchè dico ciò? Perchè in Africa, dove il tempo non esiste, dove nessuno ricorda quando è nato, la vita non finisce mai: ecco che la morte non è più il fermarsi di un orologio, oppure l'esplosione dopo il countdown.
Il mio amico Samba giura che un suo parente, in Senegal, vive da sempre, da prima ancora che i nonni dei nonni dei miei nonni venissero al mondo. E io gli credo.

martedì 6 giugno 2006

Epitaffio


Chi non ha pensato almeno una volta alla propria morte? A me capita di continuo. Vedo la mia anima che se ne sta ben comoda sdraiata su una nuvoletta, mentre amici e parenti si chiedono come sia stato possibile. Le comari lo ripetono tra se e se, scuotendo la testa: "Così giovane, forse si drogava". Mia madre, poveretta, come se non avesse già abbastanza problemi, prepara il funerale, guardando di tanto in tanto le foto di quando ero piccolo. Mi sento un po' merda, a quel punto, dalla mia nuvoletta, ma la sensazione svanisce all'istante, quando vedo tutta la gente che è venuta per darmi l'estremo saluto. Ma quanti siete? Cavoli ci sono gli amici delle elementari: parlano come se io fossi una parte di loro che se n'è andata... Ma dove cazzo eravate in questi anni, quando il venerdì sera non sapevo cosa fare, e vi chiamavo ma avevate altri impegni? Guarda, c'è anche la mia prima ragazza, la prima a cui io abbia detto ti amo; piange, poggiando la spalla su una che potrebbe essere sua madre. Anche tu però... dove, dove accidenti eri!? Quando ero disperato e volevo rivederti, quando ho provato a chiamarti per un caffè e mi hai detto che non era il caso... Però ecco arrivare, uno dopo l'altro, i miei amici... Hanno dimenticato i piccoli screzi, per un giorno si abbracciano, si salutano, sorridono appena senza saper cosa dire. Guarda, ci sono tutti, c'è perfino quella mia compagna del liceo, che non mi ha mai parlato in cinque anni: se ne sta un po' in disparte, continua a non parlare con nessuno, però c'è. Comincio, sulla mia nuvoletta, ad essere triste. Ci sono i miei parenti più lontani, guarda! Non li ho mai chiamati per natale, per i compleanni, per sapere come stava la zia o come era andato l'esame. Ci sono tutti, abbracciano mio fratello e mia madre, e poi silenziosi si siedono a metà della chiesa. E le mie amiche, quelle che da nemmeno due mesi ho conosciuto in quel locale... Ma stanno piangendo anche loro! C'è anche quella ragazza, a cui non ho avuto il tempo di dire quello che provavo... Sulla mia nuvoletta, mi vengono le lacrime agli occhi. Sembrava il massimo, il giorno del mio funerale: protagonsita per un giorno. Però al tramonto sarò soltanto più un ricordo. Maledetto il giorno del mio funerale.

martedì 30 maggio 2006

De educatione


I bambini, solitamente, non nascono "imparati". Ok, ci sono molte teorie che sostengono che alcuni aspetti dell'uomo sono innati, ma parlando in modo generico, la maggior parte delle informazioni vengono apprese, soprattutto nei primissimi anni d'età.
Non parliamo poi della formazione del carattere, e dell'educazione. Bene, su questo punto vorrei fermare l'attenzione. Ecco alcune delle frasi con cui un bambino o una bambina media, nella propria primissima infanzia (fase pre-operativa, direbbe Jean piaget, 1896-1980) deve confrontarsi quasi quotidianamente:
- Se non la smetti, lo dico a tuo padre, che ti molla un bel ceffone
- Dammi immediatamente quel foglio, o ti metto in castigo
- Scordati di uscire con i tuoi amici questo pomeriggio
- Adesso fila a dormire
- Mangia la minestra, non ti alzi fino a quando nn è finita
Eccetera
Ma nn è un po' strano? Minacce, sequestro di persona, corruzione, violenza personale, coercizione... sono tutti reati penalmente perseguibili, che in questo caso vengono semplicemente chiamati educazione. Bambini, vi dico una cosa: ribellatevi: se tra di voi c'è un buon avvocato, i vostri genitori sono fottuti.

venerdì 19 maggio 2006

Tragedia vs. Amore


Scusate se probabilmente cadrò nel banale, ma anche questo post tratta d'amore. Non credo sia dovuto a nulla in particolare, semplicemente l'altro giorno, mentre mi recavo con la mia vespa in biblioteca, ho prodotto un ragionamento che, a mio avviso, vale la pena riportare.
La letteratura, il cinema, il teatro, danno di questo abusato sentimento, verosimilmente, la stessa interpretazione. Spiego: libri, film e rappresentazioni con tematiche sentimentali hanno trame differenti e intrecci complicati, ma pressapoco due medesime tipologie di conclusione. I due amanti riescono si a coronare il loro sogno d'amore: a quel punto però ci può essere il finale "americano", in cui la coppia guarda all'orizzonte, con sguardo sicuro e la passione dipinta negli occhi, oppure quello "tragico", in cui uno o entrambi i protagonisti muoiono.
Quindi è semplice capire il nesso: l'innamoramento, quella passione che ci hanno descritto così bene e che catturano la nostra attenzione fino all'ultimo minuto, hanno un senso proprio perchè c'è una fine, che bruscamente interrompe l'azione.
Perchè non ci raccontano mai il "dopo"?
Perchè sarebbe un insuccesso, ecco perchè. Credete forse che Romeo e Giulietta, se non si fossero suicidati sulla scena per toccare il cuore di tutti noi, se fossero veramente riusciti a fuggire verso Modena, non avrebbero un giorno litigato per chi sarebbe dovuto andare a prendere i figli a scuola? E se Rhett non avesse deciso di partire, lasciando Rossella con la celebre "In fondo, domani è un'altro giorno", lei un giorno non sarebbe forse tornata a casa, trovando lui ubriaco, pronto a picchiarla come consuetudine tra l'altro?
Se poi Othello non avesse creduto nel tradimento di Desdemona, ci ricorderemmo di un enorme afro-veneziano col vizio di fidarsi troppo poco del prossimo?
No. L'amore funziona solo quando è tragico, quando al suo apice viene interrotto.
Allora è davvero per sempre.

P.s. La foto di Claire Danes, al balcone nel celebre rifacimento in chiave moderna di Romeo and Juliet, centra poco col post, lo so. Però la adoro. Anzi, potrei addirittura dire che tutto quello che ho scritto era semplicemente una scusa per poterla inserire nel blog. Non giudicatemi...

lunedì 15 maggio 2006

Ippopotami


Gli scienziati hanno scoperto un fatto molto curioso, almeno secondo il mio parere: gli ippopotami, dopo il primo accoppiamento, rimangono fedeli al proprio "partner" per tutta la vita. Non esiste, insomma, un ippopotamo che divorzi dalla sua ippopotama, non esistono di conseguenza avvocati che abbiano fatto la propria fortuna con gli ippopotami fedifraghi.
La domanda, mi è sorta spontanea subito dopo aver letto questa favolosa scoperta: tra questi "cavalli di fiume" funziona così perchè sono davvero innamorati, oppure semplicemente perchè nel mondo degli ippopotami l'amore non esiste?
Rifletteteci.

venerdì 28 aprile 2006

Amore e Psiche


La statua, non viene creata dal nulla: esiste già nel blocco di marmo, è sufficiente eliminare tutto ciò che sta intorno. Non è la stessa cosa per qualunque sentimento umano? Non sono già lì, mescolati a tutte le sensazioni che ci rendono diffidenti, premurosi, spaventati, che non ci lasciano esporre? L'innamoramento, l'amicizia, l'affetto... sono tutti sentimenti "per levare". Ne sono assolutissimamentissimamentissimamente sicuro. Stop.

giovedì 27 aprile 2006

Il parere dello psicologo


Credo, anzi sono sicuro, che quasi tutti gli studenti di psicologia, quando hanno iniziato il loro corso di studi, erano convinti di una cosa: che prima o poi, col susseguirsi dei corsi, degli esami e dei vari tirocini, avrebbero trovato la risposta a tutti gli interrogativi cui la vita ci pone davanti.
Questa convinzione è alimentata da diversi fattori, e non è propria soltanto degli ignari studenti di psicologia: sono molti infatti gli "specialisti", gli "esperti", gli "opinionisti" che riempiono ormai lo share televisivo, i quali propinano pareri omniscenti, trovando sempre la spiegazione per quell'omicidio, per quella strage, per quel fenomeno. Di Crepèt qualsiasi è pieno non soltanto il piccolo schermo, ma anche gran parte della carta stampata: non mancano poi i quotidiani interventi di psichiatri e psicoterapeuti stranieri, che dalle università della Pensylvennia forniscono statistiche, studi elaborati... Questo "Popolo della psicologia" spiega tutto, insomma.
Ben presto però i "nostri" studenti sarano posti di fronte alla dura realtà: la psicologia, purtroppo, non spiega proprio un cazzo. Anzi, complica tutto; essa pone infatti l'essere umano di fronte ai propri limiti, di fronte al dolore e alla sofferenza che caratterizza la vita di tutti noi. Non propina inoltre risposte da contrapporre a questo dolore, ma in modo del tutto non invasivo cerca di convincere le persone che certi mali non vanno evitati, vanno semplicemente accettati e sopportati. Grazie tante, vien da dire. Col passare del tempo, però, ci si rende conto che se davvero si capisce quel piccolissimo concetto, forse è davvero più facile, questo mondo. Lo studente di psicologia a quel punto ha due strade davanti: diventare un Paolo Crepèt qualsiasi, e far credere all'uditorio di possedere la risposta a tutto, soddisfacente e rassicurante, oppure far capire ad amici, parenti e conoscenti tutti che non è "il male" ciò su cui dobbiamo porre l'attenzione, ma bensì ciò che ci spinge a identificare "il male" e, soprattutto, il perchè decidiamo di confidarci con una persona, che sia essa uno psicologo, un genitore, un amico. Dalla relazione con l'altro, si può capire veramente come sfuggire la sofferenza.
Questo, la gente non lo sospetta. Molto più facile affidarsi a una risposta scientifica, a paroloni quali "complesso edipico", "fissazione orale", "edonismo"... Come se poi con una piccola medicina si potesse, identificato il male, guarire completamente... Vaffanculo, psicologia, ci hai davvero fregati tutti. E ce lo meritiamo, in fondo.

domenica 16 aprile 2006

Effetto Placebo


Ci sono quelle sere in cui, cazzo, ti senti davvero una merda.
Prima di tutto l'abbigliamento non funziona: le scarpe sono sporche, i jeans cadono peggio della pelle di uno stoccafisso appeso ad un gancio all'esterno di un negozio in riva al mare, la maglia ha il colletto troppo alto, perfino le maniche sono sbordate e asimmetriche.
Ti sei visto i capelli, poi? Sembra che ti sei appena tolto il casco dopo un intero granpremio di formula uno, in estate. La barba poi... Quant'è che non te la fai? Una settimana almeno. Sembri un comunista, ti dice tua nonna. Non apriamo questa parentesi, le rispondi tu.
Gli amici sono particolarmente scazzati: si beve in silenzio, si parla in modo qualunquista, si guardano passare le ragazzine in fiore quasi all'unisono. Sembriamo gli spettatori di un incontro di tennis, la testa che si stacca da un culo per incollarsi inesorabilmente su un'altro. E no, non chiamateci sfigati, siamo gli eroi più spietati del mondo, in altre occasioni; questa purtroppo è solo una di quelle sere in cui. Dopo innumerevoli tentativi riesci a trovare la più preziosa delle amiche, sta andando il quel buco di merda a ballare. Dio mio no, non è possibile. Però ci pensi, e ti dici che il fondo già l'hai toccato, stasera, e ci vai. La raggiungi guidando forte, almeno per quei minuti di viaggio ti senti davvero fico e perfetto: le strade deserte devono soltanto badare a te, al tuo piede premuto fino in fondo su un'accelleratore non abituato a ritmi diversi.
Davanti al locale ovviamente nn c'è posto per parcheggiare, ma l'abbiamo già detto che era una di quelle serate, e tu non sei solito lamentarti con ciclo continuativo. Lasci il mezzo a quasi un chilometro di distanza, cammini poi con le mani in tasca e le spalle leggermente alte: è incredibile come cerchi di sembrar un minimo stiloso anche quando nessuno è lì a guardarti. Lo fai per te, unicamente per la tua autostima, e sai che molto di quelloc he succederà dopo dipende da questo. Molti sottovalutano questi momenti, ma tu no.
Arrivi finalmente, e lei è lì che ti aspetta, come avevi sospettato: entrate nel buco e stranamente non vi stupisce il fatto che sia praticamente deserto (le serate di merda sono così). Vi sedete su un divanetto, il solito per la precisione, parlando di voi e dei reciproci futuri. Dopo un po' lei se ne vuole andare, tu sei indeciso sul da farsi, poi decidi di seguirla: ci hai pensato, andare a dormire in momenti come quelli è davvero l'unica soluzione. Poi, mentre esci, la vedi entrare. Non sai nemmeno come si chiama, la vedi però ovunque tu vada, da qualche tempo, e avresti più volte voluto avvicinarla. La vedi, si avvicina, lei ti vede. Passandoti accanto sei sicuro che in quei pochi istanti in cui il tuo sguardo è stato nel suo, lei abbia sorriso. Nonostante tutto continui a camminare, segui la tua amica in strada, ti alzi il bavero della giacca e dopo averla presa sottobraccio camminate quasi danzando verso la macchina. Quella ragazza misteriosa, maledizione, e il suo benefico effetto Placebo... Tra qualche minuto svanirà, vorresti essere rimasto ancora un po' per prolungarne gli effetti. Ma cammini, quasi danzando, verso la macchina che ti porterà a casa: un'altra serata se ne sta per andare, mentre la pastiglia di zucchero che pensavi fosse una soluzione definitiva, lentamente, si scioglie nello stomaco.

venerdì 14 aprile 2006

Utilità


Quanto sono inutili. Un simile commento, son pronto a scommetterlo, è venuto per lo meno in mente a ciascuno di voi, riferito a quei piccoli insetti comunemente conosciuti come zanzare. Poco importa che esse appartengano all'ordine dei Ditteri, sottordine Nematoceri, famiglia Culicidi: sono zanzare. E come tali sono caratterizzate dalla fastidiosa abitudine di succhiare il sangue lasciando uno sgradevole prurito, resa ancor più perniciosa proprio dal fatto che apparentemente esse non hanno un'utilità per il mondo. Senza zanzare, intendiamoci, il la vita di tutti noi andrebbe avanti lo stesso.

Bene. La prossima volta che penserete: "le zanzare non servono a nulla", per una volta, considerate invece che siete voi che servite alle zanzare, per vivere. Fa uno strano effetto non essere sempre al centro del mondo, vero?

mercoledì 5 aprile 2006

Dichiarazione d'amore


Lo sapevo, mi hai tradito ancora.
Ricordo come fosse ieri, la mia prima dichiarazione d'amore: seduto su una sedia col pagliericcio, i miei piedi che non toccavano terra; mia madre cucinava alle mie spalle, una bibita gigante sul tavolo mi nascondeva in parte il televisore, mentre Matthaeus regalava un sogno che io nella mia fanciullezza non potevo immaginare essere così atteso, sudato, ambito, affossando il Napoli di Maradona. Maradona, il più grande giocatore del mondo, non aveva potuto nulla contro di te. Ricordo l'abbraccio di mia madre, il mio sguardo che rimbalzava mai stanco tra gli occhi di lei e quel fiume umano che invadeva un campo, poco prima terreno di battaglia, ora di festa.
Ho deciso di amare i tuoi colori. E di seguirti. Le prime cicatrici le ho dovute sopportare già da subito, le gioie che mi avevi promesso, però, me le hai donate tutte: solo chi divide questa passione con me sa cosa significa essere innamorati di un simbolo, di un ideale; solo chi ti ama davvero sa rialzarsi da una caduta brusca o da un'illusione per poi tornare, più forte e sorridente di prima, a sedersi su un divano e abbracciare il cane, da solo, per una semplice vittoria inaspettata. Cosa vogliono, adesso, tutti quelli che, ancora, mi coprono di insulti, mi scherniscono e ridono alle mie spalle, godendo nell'unico modo che è loro possibile? Non hanno ancora capito che invece dovrebbero inchinarsi davanti a me, capire che la mia è una vera passione che nasce da dentro? Se non ne faccio una questione personale non è per rassegnazione: non si devono stupire se agli insulti risponderò con un sorriso accennato, guardandoli negli occhi. Devono saperlo, è questo lo spirito romantico maledetto che caratterizza quelli come me.
Mi hai deluso ancora, ancora una volta mi hai tradito. Ma non ti preoccupare, io non farò lo stesso. Sarò nuovamente fedele al sentimento esploso nel cuoricino di quel "me" bambino, seduto davanti a un televisore, mentre Matthaeus, da trenta metri, affossava il Napoli di Maradona. Il più grande giocatore del mondo.

mercoledì 29 marzo 2006

Piccole competizioni quotidiane


L'altra mattina me ne stavo comodamente seduto sul treno delle 7.13 destinazione Torino e guardavo fuori dal finestrino. Recenti statistiche americane dimostrano che non c'è davvero nulla di strano in ciò: infatti il 65% della gente che viaggia su rotaie guarda fuori dal vetro. Questo calcolo incrementa se si limita la nostra analisi soltanto a coloro che durante il tragitto, per scelta o sorte, si trovano seduti vicino al suddetto finestrino (85%), per giungere alla significativa statistica di 98% se si considerano soltanto coloro che viaggiano situati in quella favorevole posizione e non sono in compagnia di amici o conoscenti con cui intrattenersi in conversazione (cosa faccia il restante 2% in questo caso, non è dato saperlo). Bene, mentre il convoglio si trascinava stancamente verso la sua (e mia) meta, condensando in se stesso gli stati d'animo di tutti i pendolari mattutini costretti a svegliarsi, per lo meno, alle 6.30, dovevo trovare un'occupazione per non addormentarmi (e rischiare così di ritrovarmi ad Aosta o, peggio, oltre qualche confine) o per non annoiarmi oltremodo. Insomma, dovevo ammazzare il tempo. Essendo io di mente fantasiosa e soprattutto annoverando nel mio personalissimo "curriculum" anni di animatore oratoriano, non ho mai riscontrato particolari difficoltà nell'inventare piccoli giochi stupidi per adempiere a questa annosa questione del "passatempo": cercai dunque, inutilmente, per almeno dieci minuti buoni, di sfatare l'antico mito secondo cui è impossibile far scivolare lo sguardo sugli oggetti in movimento (anche se a dire il vero, non erano gli oggetti a muoversi, ma bensì il treno), mantendoli a fuoco: sembra infatti che gli occhi umani siano concepiti per "incollarsi" su punti fissi. Sconsolato notai poi che era cominciato a piovere: subito maledii la mia condizione che mutava da "pendolare" a "pendolare-senza-ombrello-o-cappuccio-impermeabile-alcuno). La tristezza svanì però nel momento in cui notai che la precipitazione atmosferica mi dava modo di creare un nuovo gioco che mia vrebbe tenuto occupato per un po', visti gli scarsi risultati ottenuti nei pochi minuti inziali di viaggio con l'altro espediente, prima descritto. Alcune gocce di pioggia infatti si erano posate sulla superficie esterna dei finestrini: grazie al movimento del treno, alcune di esse percorrevano longitudinalmente la lunghezza del medesimo, rincorrendosi in una gara senza ritorno e inglobando con fare cannibalistico tutte le sorelle malauguratamente cadute sul loro percorso.
Decisi dunque di promuovere una vera e propria competizione tra le goccioline gareggianti: notai però dopo soli pochi minuti che una gara di questo tipo non aveva un grande significato sportivo: infatti raramente le particelle acquose prescelte prendevano il via contemporaneamente: la fortunata spinta dal vento per prima, risultava sempre la vincitrice sul traguardo virtuale tracciato da una piccola riga sul vetro (questo probabilmente era dovuto al fatto che le condizoni atomosferiche, la conformazione del tracciato di gara e la composizione delle gocce era pressochè la medesima). Lo sconforto a questo punto era molto: pensai addirittura di distogliere il mio sguardo dal vetro e di (udite udite) studiare un po'. Ecco accadere però il miracolo: nell'ultima gara utile del gran premio su vetro per goccie d'acqua piovana, una delle due partecipanti partì con netto svantaggio temporale, ritrovandosi a rincorrere di parecchi centimetri (potete ben immaginare che, sebbene comunemente pochi centimetri non siano nulla, per una gara di velocità su finestrino ferroviario siano decisivi). La sfavorita però, non perdendosi d'animo, a pochi secondi dall'arrivo accellerò in maniera originale, aggirando sulla destra l'avversaria, superandola e vincendo al fotofinish. Per poco non mi alzai in piedi, urlando la mia gioia a pieni polmoni: era un momento storico per l'umanità intera, anche se le circa trenta persone nel vagone non avrebbero mai potuto capire. Se una semplice, minuscola, sfavorita gocciolina, partita con netto svantaggio per colpa del fato, della sorte o di fattori ignoti allo scibile, riusciva nonostante tutto a trionfare in maniera brillante, voleva dire che c'è davvero speranza per tutti. Ce la può fare l'operaio precario a 8oo euro al mese, ce la può fare lo studente al 4° anno fuoricorso, ce la può fare la casalinga vedova con tre figli. Ce la può fare inoltre uno che sogna di far lo scrittore, o il fotografo, o entrambe le cose, anche se tutto sembra contro di lui.
Erano le 7.46 e Torino era sempre più vicina. Un'altro giorno stava per cominciare. Poco importa se l'ottimismo procuratomi dalla mia eroica goccia di pioggia, avrebbe scemato nell'arco della giornata. Questa è un'altra storia. Ah ah ah.

martedì 21 marzo 2006

L'origine

Nasce oggi il mio primo blog. Anzi, spiegamoci meglio: non è effettivamente il primo, dato che ne ho iniziati tanti, ma nessuno mi ha davvero soddisfatto. E nulla mi dice che per quest'ultimo nato il destino sarà diverso. Ma tant'è, se non inizio, non lo potrò sapere. Per ora un semplice ringraziamento è d'obbligo: a Pietro, compagni di classe prima e amico poi, che con la sua capacità innata di stendere i suoi pensieri su fogli informatici, mi ha convinto ad iniziare questa nuova "avventura". Senza di lui, probabilmente starei giocando a scudetto ascoltando un disco scadente.

Che si apra il sipario