venerdì 23 gennaio 2009

A spasso con Billy


Guardo l’orologio appeso al muro sopra la televisione. Le sette. Fuori fa freddo, lo so. Troppo freddo per uscire, ma ai cani non interessa. Se non porto fuori Billy adesso che ho ancora la forza di farlo, poi questa notte farà un bel casino in cucina, e allora dovrò sopportarmi tutte le sue urla e pianti. E dire che il cane è suo: gliel’ho regalato per il nostro anniversario, tre anni fa. Mi aveva baciato con gli occhi lucidi quando aveva visto questo batuffolo di pelo con gli occhi grandi infiocchettato, era il miglior regalo di sempre, aveva detto. Poi avevamo fatto l’amore come non mai. Eravamo grandi insieme ai tempi, devo ammetterlo.

Spengo il televisore con il telecomando, rimango qualche secondo seduto nella stanza buia, poi mi alzo e mi avvicino all’armadio, per prendere il cappotto. Billy capisce subito, e mi saltella intorno, scodinzolando.
Scendo le scale saltando due scalini per volta, come facevo da ragazzo; apro la porticina del condominio e vengo investito da una folata d’aria gelida. Torino è ancora coperta in gran parte dalla neve caduta negli scorsi giorni: al telegiornale hanno detto che da trent’anni non si vedeva una tale nevicata. Mi ricordo a cosa si riferiscono. Ero poco più che un bambino, e mio nonno mi aveva preso sulle spalle per attraversare il parco ricoperto di neve. A lui arrivava fin sopra il ginocchio, e io che non raggiungevo il metro di altezza sarei affondato fino alle orecchie. È un ricordo nitido, questo: uno dei pochi che mi rimangono della mia infanzia.
Allungo un po’ il guinzaglio a Billy, in modo che possa fare i suoi bisogni, tranquillo, nel piccolo parco al centro della piazzetta, mentre io mi appoggio ad un albero e mi accendo una sigaretta.

Non so cosa possa essere, ma il mio rapporto con lei da qualche tempo è cambiato. Non ho mai creduto alla storia che l’amore ha una durata prestabilita, oltre la quale rimane una buona dose d’affetto, qualche carezza e poco più. Anzi, sono sicuro. Noi ci amiamo ancora. Ci sono dei momenti in cui la spio mentre dorme, la notte tardi, e mi so ancora stupire di quanto sia bella. Vorrei svegliarla, per fare l’amore come quando eravamo ragazzi, quando lo facevamo anche tre volte a notte, quando capitava. Ma poi mi blocco, e la lascio ai suoi sogni. Mi volto dall’altra parte e tento per diverse ore di prendere sonno. Inutilmente.
I silenzi di fronte alla televisione sono sempre più lunghi, non ci mandiamo sms e non ci telefoniamo mai durante il giorno. Eppure ci vorrebbe così poco, per riaccendere un po’ di passione. Un piccolo gesto, una carezza o un sorriso. Sto forse condannando a morte il nostro rapporto: una condanna per sfinimento, per fame. Lenta ma inesorabile.

Un vecchio col cappello mi passa accanto e mi porge un timido cenno di saluto. Non so chi sia, ma rispondo con educazione. Le dita che stritolano la sigaretta si stanno congelando, ma non importa: in casa non posso fumare, e l’unica alternativa è l’astinenza.
Billy sta annusando qualcosa dietro un grosso albero, mentre una coppia di ragazzi sulla ventina si siede su una panchina, al centro del giardinetto. Lui ha l’aria di un intellettuale di sinistra poco convinto di se: barba di diversi giorni e capelli spettinati; lei ha un’enorme sciarpa che le fascia il viso e camminava a occhi bassi, prima di sedersi.
Un bimbo vorrebbe salire sull’altalena, ma la madre lo trascina per un braccio, non badando alle sue urla capricciose.

Avremmo dovuto avere un bambino. Ce lo ripetono sempre, le altre coppie, quando ci invitano a cena. Sempre dopo aver messo a letto i loro, di figli. Sembra che il segreto per far funzionare un rapporto stia tutto nel mettere al mondo un fagotto urlante. Ci avevamo pensato, a dire il vero, più di una volta. Ma avrebbe voluto dire cambiare radicalmente le nostre vite. Laura aveva una forte passione per il lavoro e l’indipendenza: l’idea di mettere tutto da parte per crescere una creatura la spaventava. Anzi, la terrorizzava proprio. Gli anni sono passati, e adesso credo sia ormai troppo tardi per pensare a una cosa del genere: se le proponessi di fare un bambino ora, so come reagirebbe. In fondo abbiamo già un cane a cui badare, e non ci riesco nemmeno troppo bene.

I due ragazzi sulla panchina parlano piano. Non riesco a capire se litigano oppure no, ma lo credo improbabile: ogni tanto lei ride a una battuta di lui, che le accarezza una mano, quasi timidamente.
Per qualche secondo invidio la loro intimità: il caos del traffico intorno alla piazzetta, le persone che camminano e tutto il trambusto cittadino sembra non sfiorarli nemmeno, ora come ora.
Lui, ad un tratto, la bacia. Un bacio inatteso, improvviso. Le accarezza il viso con una mano, mentre l’altra si intreccia a quella di lei. Sembrano due quattordicenni che per la prima volta scoprono la magia racchiusa in quel semplice gesto.

E mi viene in mente quando ho incontrato Laura per la prima volta. Lavoravo come barman in un locale lungo il fiume; un locale frequentato soprattutto da studenti universitari alla ricerca dell’avventura da raccontare. L’avevo notata subito, tra mille. I suoi occhi. Le sue labbra, i suoi denti perfetti. Le sue mani appoggiate sul bancone. Avevo dato una spallata ad un altro barman del tempo, pur di poterla servire io. Lei aveva notato il gesto e si era divertita della cosa. Per tutta la sera avevamo giocato con gli sguardi; mi aveva aspettato all’uscita e avevamo fatto colazione insieme in un bar, prima che di accompagnarla a casa e ritrovarmi perdutamente innamorato.

La ragazza sta abbracciando il ragazzo. Ha gli occhi chiusi e l’aria confusa ma felice. È bellissima. Lui le appoggia la testa sulla spalla e le sussurra qualcosa.
Billy torna da me, scodinzolando. Tiene in bocca una pallina da tennis, trovata chissà dove. Lo accarezzo sulla testa, e mi avvio verso la porticina di casa. Un indiano che vende rose mi passa accanto. Lo fermo, e ne compro cinque per Laura, mentre i due giovani si alzano e camminano verso una via laterale. Lei lo tiene sottobraccio, sorridendo. Lui la guarda come se la vedesse per la prima volta.
Salgo in casa e metto le rose in un vaso.
Questa sera, appena entrerà in casa, la bacerò. Come la prima volta.
Mi ero perso, ma infondo non è mai troppo tardi, per ritrovare la strada.

domenica 11 gennaio 2009

Sogno


Il 2009 ha proprio l'aria di essere un bambino capriccioso, gioca con quella palla contro il muro e cerca di attirare la mia attenzione.
Io sono seduto al solito tavolo, cercando di leggere quel malloppo di articoli per prepararmi a chissà cosa, e lui butta la palla contro il muro.

Bum. Buuum. Bum! BUUM!

Alzo lo sguardo, con aria seria lo fisso per un paio di secondi, lui capisce e torna a guardare la sua palla colorata, tenendola tra le manine. Ha l'aria colpevole, anche se dovrei avercela io.
La fa rotolare piano verso il muro; lei rimbalza senza fare quasi rumore, e lentamente ma inesorabile si avvicina a me, fermando la propria corsa a pochi centimetri dal mio piede.
Lui non sa se avvicinarsi e prenderla o aspettare che gliela passi io.
Dopo un paio di minuti buoni, sbuffando getto la biro sui fogli sparsi, mi stiro la schiena, mi chino e prendo la palla tra le mani. Lui si alza e ha un sorriso speranzoso.
Per tutto l'anno scorso avevo desiderato di giocarci, di poterla finalmente vedere da vicino. Il 2008 infatti era un vecchio scorbutico con un bastone nodoso, e teneva questa stessa identica palla sopra una mensola, dietro la sua sedia a dondolo. Se mi avvicinavo, facendo finta di nulla, brontolava e sventolava in aria imprechi e bestemmie.
Ci sono tutti i colori del mondo, sparsi sulla superficie di questa stupida palla. Un gioco per bambini, come quello che ora si è avvicinato e allunga le sue manine sussurrandomi qualcosa. Qualcosa che ancora non capisco, ma che ho l'impressione che mi convenga stare ad ascoltare.

Il 2009 ha proprio l'aria di essere un bambino capriccioso.
Lo prendo in braccio, e gli racconto una storia.
In fondo, è la cosa che mi riesce meglio.