lunedì 18 agosto 2008

Rabbia


Rabbia.
Sono due mesi ormai che lo vengo a trovare tutti i giorni, e ancora non mi sono abituato alla sua presenza. Per fortuna presto sarà tutto finito.
Disgusto.
Oggi è l’ultima volta che ci vediamo. Questa notte, alle quattro e quarantacinque minuti esatti, il cocktail di curaro, barbiturici e cloruro di potassio metterà fine alla sua vita, e potrò finalmente cancellare dalla mente ogni immagine che lo riguarda.
Il secondino mi apre la porticina che conduce in una minuscola stanza priva di finestre. Mi fa un cenno di saluto con il capo, con uno sguardo severo: la scena si ripete medesima dal primo giorno, da quando ho accettato di seguire il caso. Sostegno psicologico lo chiamano. Come se queste bestie ne avessero bisogno. Si cerca di recuperare le loro anime in qualche modo: qualcuno richiede un prete, ma spesso mandano un tirocinante in psicologia: costa poco e difficilmente si rifiuta.
Io ho accettato subito, appena ho letto il nome del condannato a morte. John Casey.
Entro nella stanza, la luce è troppo forte, come al solito. John è seduto al centro del locale, su una sedia di legno. Di fronte a lui un vecchio tavolo e una seconda sedia, per me. Mi sorride, con un’espressione stanca e coraggiosa, che mi fa venire il voltastomaco. Ma devo mentire ancora soltanto per poco, non posso tradire le mie emozioni proprio ora.
“Alla fine eccoci qua, è giunto il momento”, mi dice, mentre prendo posto di fronte a lui, e sistemo la mia valigetta sul tavolo. Mi considera un amico. Non sa che sono tutt’altro.

John è stato arrestato tre anni fa, dopo aver ucciso dodici persone durante la sua folle corsa attraverso lo stato. Entrava in una casa, costringeva il padre di famiglia a guardare mentre lui violentava la moglie o la figlia. O entrambe. Se era in una buona giornata, torturava i malcapitati, e poi semplicemente li uccideva. Ha distrutto quattro famiglie, senza mostrare il minimo rimorso. Ho visto decine di volte i video del processo: sorrideva beffardo, mentre il giudice leggeva la sentenza.
Potrebbe essere mio padre, ma si è subito aperto con me, fin da i primi giorni. Ha parlato di disagio, di problemi di droga, di alcolismo, di una moglie che lo avrebbe lasciato. Ha anche pianto qualche volta, dando pugni secchi sul tavolo di legno. Ha scritto lettere a i parenti delle vittime, invocando un perdono che mai avrebbe potuto ottenere.

Allunga una mano sul tavolo, e prende la mia. Io lo guardo con la maschera di interesse che ho costruito in questi mesi, ma una parte di me vorrebbe conficcargli una penna, in quella schifosa mano coperta di sangue.
“Mi sei davvero stato d’aiuto, in questo periodo. So di non essere degno del minimo sentimento da parte di un altro essere umano, dopo quello che ho fatto, ma tu sei la cosa più vicina a un amico che io possa avere”, mi dice, guardandomi negli occhi. Gli rispondo con un sorriso diabolico, scosto la sua mano e apro la mia valigetta.
Non sono un tuo amico, figlio di puttana. Anche se in questi due mesi ho fatto di tutto per diventarlo. Ho finto di interessarmi a te, di capire il tuo dolore. Ho finto addirittura di credere al tuo pentimento. Tutto per arrivare ad essere qui oggi, il giorno che te ne andrai all’inferno.

Tra le dodici vittime di John Casey c’erano anche mia madre, mio padre, e mia sorella. Io ero fuori casa, in quel periodo, per un noiosissimo campo scuola in montagna. Non avevo voglia di andarci, ma mio padre aveva insistito. Ti farà bene, conoscerai gente e respirerai aria buona facendo sport. Mi aveva salvato la vita.
Dai referti della polizia avevo potuto apprendere che il porco ha abusato di mia madre, poi le ha tagliato la gola. Dopo, non contento, è passato a mio sorella, mentre mio padre, legato a una sedia, era costretto ad assistere impotente. Aveva ucciso tutti e tre, poi si era cucinato qualcosa, prima di andarsene con il Suv che mio padre aveva regalato a mia madre per il ventesimo anno di matrimonio.
Quest’uomo ha distrutto la mia famiglia, con la stessa semplicità con la quale si spruzza dell’insetticida su un nido di formiche.
Ho cambiato nome, dopo quei fatti, e mi sono iscritto ai corsi di psicologia. Ho studiato, e mi sono laureato con ottimi voti. Ma questi successi accademici non potevano soffocare il mostro che mi viveva dentro da allora. Non riuscivo a interagire con nessuno: le poche persone che provavano a essermi amiche leggevano il dolore che mi marciva all’interno, e poco a poco mi si allontanavano.
Quest’uomo ha distrutto la mia famiglia, ma non solo. Ha distrutto la mia vita.

Ho pensato a lungo alla vendetta, quando sono riuscito a diventare il suo sostegno psicologico.
Ma come ci si può vendicare di un condannato a morte? Avrei potuto avventarmi su di lui con un coltello, durante i primi giorni: sarei riuscito a nasconderlo facilmente nel doppiofondo della valigetta. Ma gli avrei fatto soltanto un favore, probabilmente.
No, per vendicarmi avrei dovuto colpire il suo cuore. Per questo ho soffocato i miei sentimenti per due mesi, e ho frequentato il mostro che ha sterminato la mia famiglia.
E ne è valsa la pena. Un giorno John ha ammesso di non aver paura di morire, perché lui avrebbe potuto continuare a vivere nello spirito della sua unica figlia. La sua donna, una poco di buono quanto lui, lo aveva lasciato portandosela via, molti anni prima. Ma John, nonostante la tossicodipendenza e la sua carriera di serial killer, aveva seguito da lontano i progressi della sua bambina, che ormai si era fatta donna. Stava finendo l’università in città, e anche se lei non avrebbe mai sospettato chi fosse suo padre, per lui era l’unico legame di umanità, l’unica cosa buona fatta in una vita di insuccessi e violenza. Aveva pianto, il maledetto, mentre mi raccontava queste cose, mostrandomi una fotografia della giovane che portava sempre con se. Mi aveva abbracciato. Avevo sorriso, affondando la testa nelle sue spalle muscolose. Un sorriso malefico, figlio del mostro che lui, senza saperlo, aveva creato in me.

Conoscere Sofia, la figlia di John, non era stato difficile. Avevo finto interesse nei suoi confronti, e dopo un paio di settimane lei mi aveva invitato a salire a casa sua. Aveva gli occhi dolci, un sorriso sincero, un’intelligenza e una cultura invidiabili.
Due giorni fa l’ho invitata per una serata speciale a casa mia. Era entusiasta, poverina.
Mentre le scattavo le foto che voglio mostrare a John oggi, poco prima che il suo cuore cessi di battere, mi sentivo particolarmente eccitato e spaventato contemporaneamente.
Mentre le stampavo, il giorno seguente, mi sentivo anche un po’ in colpa, ma non dovevo lasciare spazio a questo tipo di emozioni.

Ansia.
Gli sorrido, mentre apro la busta di carta dentro la quale ci sono le fotografie.
“Devo mostrarti una cosa, prima che sia troppo tardi, John. Ma prima devo raccontarti una storia. Qualche anno fa, mentre tu ti divertivi a spezzare vite innocenti, c’era un ragazzo con tanti sogni. Sognava di essere felice, di riuscire a entrare nella squadra di calcio del college, un giorno. Sognava l’amore, sognava di poter presentare ai propri genitori la propria ragazza, la sera del ballo, e di poter andare in vacanza sulla costa del sud con la propria sorellina, e fumarsi una canna insieme ridendo sul tetto del garage. Sognava di rendere fiera sua madre, un giorno. Tutti sogni semplici, resi vani però dal massacro di uno psicopatico come te, John”.
La mia voce è calma, forse troppo. John mi guarda con aria interrogativa, balbetta qualcosa, ma io continuo a parlare. Ho poco tempo, prima che il secondino bussi sulla porta per dirmi che il mio tempo è finito.
“Hai distrutto la mia vita, uccidendo le persone a me più care. L’hai fatto senza un motivo, senza pensarci. Ma anche se io quel giorno non sono morto, anche io sono una vittima. La tua tredicesima vittima. Stai tranquillo però, non è tutto. Ho dovuto attendere due mesi, fingendo di interessarmi a te, per questo momento. Sai, esiste una quattordicesima vittima. Eccola”.

Eccitazione.
Nella busta ci sono tre fotografie. Nella prima, io e Sofia siamo abbracciati di fronte all’oceano, al tramonto. Lei è felice, sorride con i capelli scompigliati dal vento. Ha gli occhi semichiusi e una mano di fronte al viso, sfuocata.
John la guarda e comincia a sudare freddo, lo sento.
“Pezzo di merda, cosa hai fatto…”. Non gli faccio finire la frase, e gli metto davanti la seconda foto: Sofia è sdraiata sul letto, vestita soltanto con una maglietta che lascia scoperta la spalla sinistra. Con un braccio cerca di nascondere il viso: di fianco a lei ci sono io, che la bacio sulla fronte.
Nell’ultima foto, che gli faccio scivolare davanti mentre le lacrime cominciano a solcargli il viso, Sofia è sdraiata su un tavolo di legno, legata, completamente nuda. Il suo corpo è violaceo, ricoperto di tagli e contusioni. Gli occhi sono chiusi, gonfi, mentre le labbra sono viola. Il capo è rivoltato indietro, in una posizione innaturale. Tutto intorno al tavolo si allarga una grande chiazza di sangue scuro. John caccia un urlo, e si prende la testa tra le mani
“Vedi, John, ho cercato in qualche modo di provare quello che tu avevi provato, sterminando la mia famiglia. Ma non ci sono riuscito. Ci ho giocato per quaranta minuti circa, con questa troietta, piangeva e urlava, ma non mi ha soddisfatto. Questo è solo il mio primo esperimento, speravo tu potessi insegnarmi qual è il segreto. Puoi, John?”
Ma lui non risponde. Si tiene la testa tra le mani, urla, piange come un bambino a cui è stato proibito di andare al luna park. Faccio sparire le foto all’interno della valigetta, mi alzo e busso alla porta. Il secondino mi apre, e mi chiede cosa stia succedendo.
Ha paura di morire, gli rispondo.

Calma.
John mi vede, tra il pubblico, all’esecuzione. Ha gli occhi gonfi del pianto. Mi urla contro, dice ai suoi boia che io ho ucciso la sua unica figlia. Il delirio di un pazzo, pensano quelli.
Alle cinque e dodici minuti il suo cuore cessa di battere.

Vado al funerale, Sofia ci tiene ad accompagnarmi. Già, Sofia. Per chi mi avete preso? Non avrei mai potuto mettermi al suo livello. È stato sufficiente un botticino di cloroformio, rubato nell’infermeria del carcere, e una buona dose di trucchi per carnevale. Devo dire che il lavoro è venuto bene: Sofia non si è accorta di nulla, a parte il leggero mal di testa il giorno dopo.
Colpa del vino, le ho detto io.
John è morto con la certezza di aver perso l’unica traccia che era riuscito a lasciare al mondo.
Sono felice, dopo molto tempo, per la prima volta.

“È un duro lavoro il tuo, Alex. Non ti invidio proprio”, mi dice lei, tenendomi la mano, mentre la cassa di legno entra nel forno crematorio.

sabato 2 agosto 2008

Freie und Hansestadt Hamburg


Se cammini la sera tardi per le strade della tua città, rivivi sensazioni che probabilmente in fondo a te sai che mai dimenticherai. Di cui difficilmente potrai fare a meno, nei tuoi momenti di debolezza. Riaffiorano i ricordi felici, sopraffatti a volte da quelli che fanno più male: ma che siano belli o brutti, alla fine, li accetti comunque, perchè quando cammini per le strade della tua città, la sera tardi, fa anche un po' bene farsi un po' del male.

Se invece cammini la sera tardi per le strade di una città che non è la tua, magari a centinaia di chilometri da casa, magari in un paese straniero.. Beh le cose cambiano. Ti ritrovi con la testa del tutto altrove a dove avresti potuto immaginare. Rimani con lo sguardo perso nel vuoto per qualche attimo più del previsto, assapori ogni centimetro di questo "nuovo mondo personale" che hai di fronte. Ogni piazza è una scoperta, ogni strada una promessa, ogni locale aperto una nuova avventura. Magari ti appoggi al muretto in pietra antica che confina con il lago, e guardi la skyline di fronte a te, non riuscendo a distinguere ciò che di giorno pareva così chiaro.
Guardi i palazzi, e cominci a capire però anche tu quello che ti raccontava il tuo amico qualche giorno prima: entri nell'ottica dell'abitante del luogo, e puoi addirittura sentirti sicuro di te nell'affermare che questo o quel palazzo sono stati costruiti dopo la guerra, mentre quell'altro è sicuramente precedente.

Insomma, certi pensieri non ti toccano, quando cammini per una città che non è la tua: non è sicuramente perchè le cose fanno meno male, lo sai bene, ma lontano da casa hai la consapevolezza che l'aereo possa ridecollare, magari con qualche pezza, da dove era precipitato tempo prima.

Ti senti un po' parte della città, quando cammini la sera tardi per le sue strade.
Anche se parla una lingua diversa.