mercoledì 6 giugno 2007

Imprevisto


Una premessa: il post che state per leggere, se volete leggerlo, non mi piace.
L'ho postato perchè l'ho scritto, e ho deciso di non buttare più nulla di quello che scrivo, almeno non ciò che scrivo che superi le 20 righe. Magari un giorno, rileggendole, riuscirò a cavarne qualcosa di buono.

Mi chiamo Micky (si legge Maichi), e il vampiro ha ripreso a vivere in me. Non penso fosse un caso che quel giorno mi trovassi proprio in quella frequentata aula studio, dove si ritrovano ragazzi di tutte le età per consumare i propri sforzi applicativi ma soprattutto per solidarizzare su un probabile insuccesso all’esame di turno. Ero seduto al mio posto, in un angolo, per non venire disturbato in continuazione dalle parole e dalle risatine inconsistenti della massa inebriata dai primi vagiti di un’estate ancora troppo debole per nascere completamente. Le cuffie nelle orecchie mi impedivano di sentire i loro discorsi bisbigliati, quando di tanto in tanto alzavo la sguardo dal mio libro per osservare qualcuno, a caso. Spesso in queste situazioni mi era capitato, altre volte, di immaginare nella mia testa evoluzioni dei fatti inattese: ogni tanto il protagonista del mio flusso mentale era uno squilibrato, che si alzava dalla propria sedia al centro della sala e, dopo aver estratto una pistola celata nello zaino, scaricava il suo disagio post adolescenziale sulla ragazza seduta poco lontano, sotto forma però di qualche dozzina di proiettili. Se ero fortunato in uno di questi flash io stesso venivo colpito accidentalmente da un colpo vagante, e a seconda dei casi agonizzavo a terra per qualche istante, prima di spegnermi definitivamente e tornare a studiare, oppure eroicamente, tenendo una mano sulla parte ferita, mi lanciavo sul folle atterrandolo e disarmandolo, tra gridolini di approvazione e giubilo, e conati di vomito trattenuti.
A volte invece guardavo attentamente le espressioni delle ragazze intente a studiare, quelle che hanno 30 e lode stampato in faccia dalla prima elementare, e mi chiedevo, scrutando le loro espressioni contrite dagli sforzi di uno studio folle e disperatissimo, come queste stesse espressioni si sarebbero potute mutare, nel momento dell’amplesso sessuale. Mi è capitato di pensare, lo ammetto, che certe figlie di papà vorresti davvero portartele a letto solo per vedere come sono capaci di godere: se si mordono le labbra, se chiudono gli occhi trattenendo il respiro o se urlano come ossesse, nell’attesa del colpo finale.
Quel giorno invece avevo in mente di ucciderne una, per vedere che effetto facesse. Era tardi, saranno state le nove, l’aula studio andava svuotandosi sempre più velocemente, e tra coloro che rimanevano avrei dovuto scegliere la mia preda, per placare la sete curiosa del vampiro che, da semplice interrogativo stupido nato tra una pagina e l’altra, rischiava di diventare ossessione capace di impedirmi di preparare l’esame di antropologia culturale.
La vidi seduta ad un tavolo da sola, mentre ripeteva chissà quale lezione tenendo due dita sulla bocca e guardando in alto. Era bionda, truccata lievemente e pareva essere a suo agio vestita con una maglia porpora e dei pantaloni verdi. Non l’avevo scelta però per il pessimo accostamento cromatico, ma per la collana semplice e dorata alla quale era assicurato un cuore in argento. Anzi, un mezzo cuore d’argento: come quelli che si regalano i fidanzatini alle superiori, scambiandosi eterne promesse d’amore. La scelta era condizionata dal fatto che, se avessi dovuto uccidere qualcuno, questo qualcuno avrebbe dovuto aver il maggior numero di legami possibili: il funerale sarebbe stato grandioso, formidabile per il numero di presenti e per il dolore collettivo accumulato.
La studiai per una buona mezz’ora, cercando di carpire il maggior numero di informazioni necessarie per il mio scopo: teneva il telefonino sul tavolo di studio e ogni tanto gli dava una sbirciata veloce, quasi impercettibile; forse aspettava qualcuno che la venisse a prendere (il proprietario dell’altra metà del suo cuore?) oppure semplicemente controllava l’ora. Era certo però che qualunque fosse il motivo, tra poco sarebbe andata via, e non avevo ancora un piano preciso d’azione: non potevo lasciare che il caso guidasse le mie azioni, perché altrimenti avrei rischiato di rovinare tutto, e trasformare un semplice esperimento in una tragedia ingestibile.
Ad un certo punto si alzò, cominciando a radunare ordinatamente nello zaino le proprie cose: il mio cuore cominciò a martellare, sempre più forte: avrei potuto desistere dal mio scopo, ma ormai c’ero troppo dentro per tornare sui miei passi. Scaraventai nella borsa il libro dal quale stavo studiando, senza mettere un segno al punto al quale ero giunto: aspettai che uscisse e poi le andai dietro. Alla prima traversa girò alla sua destra, scomparendo alla mia vista: affrettai il passo e la vidi attraversare la strada, camminando senza voltarsi in direzione dell’incrocio principale. Le stavo dietro, qualche decina di metri ci distanziava, nell’attesa che i miei muscoli scattassero e che l’adrenalina facesse il resto. Mi rendevo conto che la vittima scelta dal caso per il mio esperimento, man mano che procedeva, accelerava il passo: mi aveva visto? Aveva capito le mie intenzioni? Era impossibile, ma non volevo comunque correre rischi. Attraversai nuovamente la strada, per depistarla, rimanendo però sulle sue tracce. Svoltò nuovamente in una via laterale, le andai dietro facendo finta di parlare al telefono, quasi per rassicurarla. Non volevo si spaventasse: volevo ucciderla, ma non ci vedevo nulla di sadico in tutto ciò e non volevo provocare effetti collaterali in lei. Estrassi un coltello dalla tasca: uno di quei coltelli svizzeri che venivano pubblicizzati a metà degli anni novanta, utilissimi se devi aprire una bottiglia di birra, sbucciare una mela, incidere un banco, o accoltellare una sconosciuta. Decisi che era il momento di agire: era tardi, non c’era nessuno in giro, la via era stretta e poco illuminata. Camminai più velocemente, ero a pochi metri da lei, quando improvvisamente si fermò, si accostò ad una macchina, e cominciò a cercare nella borsa qualcosa, forse le chiavi. Questa sua manovra improvvisa mi ghiacciò il sangue nelle vene, ma non lasciai trapelare alcuna emozione. Mi avvicinai a lei, stringendo nella mano sinistra la lama: ero a pochi passi da lei, poi la vidi estrarre un oggetto nero, luccicante. Non cercava le chiavi, in mano aveva una pistola. Si voltò, per la prima volta i nostri sguardi si incontrarono. Esplose un colpo, un secondo, forse anche un terzo. Ad ogni sparo socchiudeva gli occhi: non era abituata a far fuoco contro uno sconosciuto, pensai. Sentii i proiettili colpirmi all’addome, guardai le ferite allargarsi sulla maglietta nuova che indossavo per la prima volta, quel giorno.
Caddi a terra, confuso. Dalla macchina, dal posto del guidatore, scese un tizio, non l’avevo visto prima. I due si guardarono, poi guardarono me. “Apri il bagagliaio”, lui le disse, mentre io a terra, inerme, guardavo il cielo sbavato dalle luci cittadine, impossibilitato in ogni più piccolo movimento. Ogni respiro aveva il sapore metallico del sangue.
Mentre lei eseguiva l’ordine, lui mi sollevò da terra, quasi fossi un sacco vuoto, e mi depose con cura all’interno del baule: era ampio e pulito. Chiusi gli occhi, deglutii, e vidi l’uomo guardarmi senza emozioni. La ragazza era seduta in macchina, che aspettava. Dopo aver sigillato il bagagliaio, l’uomo si sedette nuovamente alla posto di guida e mise in moto.

Sentivo la strada correre sotto di me, ogni dosso era un sobbalzo. Sorrisi, nel buio del baule: ero tornato a essere vampiro, non potevano uccidermi con qualche colpo di pistola. Sciocchi.
La macchina filava veloce nella città. Cercai di dormire un poco, mentre il mio cuore rallentava.

1 commento:

Paolo ha detto...

a me invece mi è piaciuto tanto... Hai una capacità di mettere tensione mentre uno legge e non vedere l'ora che arrivi la fine per sapere...
Grande!