mercoledì 30 aprile 2008

Il punto


E allora qual'è il punto?

Giacomo guardò Ilaria negli occhi, bevve un sorso di birra tiepida e cercò di riordinare le idee.
Sapeva che quella domanda sarebbe arrivata, prima o poi, era nell’aria da una buona mezz’ora. Gli amici solitamente hanno la tendenza a non chiedere certe cose, anche se ne avrebbero tutti i diritti, pensò. Anzi, ne avrebbero il dovere! Invece no: se ne stano li, fermi e zitti, ti ascoltano in silenzio e ti dicono che tutto si aggiusterà. Ti guardano con uno sguardo sinceramente triste, ti danno pacche sulle spalle e ti dicono che presto le cose torneranno a girare per il verso giusto.
Ilaria era sempre stata differente. Aveva ascoltato tutta la sua storia, l’aveva guardato attentamente per diversi minuti, mentre lui snocciolava la questione, analizzando in modo il più possibile distaccato la sua recente depressione. Aveva annuito dopo alcuni passaggi, aveva scosso la testa dopo altri, ma non aveva mai commentato. Non lo aveva mai interrotto.
Poi, quando lui aveva finito di parlare, soddisfatto di come aveva elaborato con chiarezza e perfezione la situazione, lei aveva sorriso. Aveva guardato per qualche secondo nella sua tazzina di caffè, come se stesse cercando una qualche ispirazione. Poi aveva fatto quella domanda.

Lui e Giada si erano amati a lungo. Poi, un giorno, lei lo aveva lasciato. Lui non sapeva se lei avesse conosciuto un altro ragazzo, però era l’unica spiegazione che riusciva a darsi, quando mordeva le lenzuola nelle notti insonni. Spesso è più facile trovare qualcosa a cui dare la colpa, quando le cose non vanno, e forse Giada aveva fatto lo stesso ragionamento.
Aveva deciso di superare la cosa: spesso cercava di convincersi che alla sua età si credono speciali delle storie normali. Era uscito con diverse ragazze, dopo i fatti. Ma nessuna era lei.
Claudia, ad esempio. Lei era una ragazza splendida, bellissima, ambita dal cinquanta per cento almeno del suo corso. Erano andati a letto diverse volte, dopo che Giada se n’era andata, e sicuramente gli era piaciuto. Però, purtroppo, non era lei.
Paola, poi. Paola si era innamorata di lui, della sua capacità di raccontare le storie, di inventarsi un regno tutto loro dove scappare, quando il mondo era troppo brutto per viverci. Insieme, lui e Paola, avevano viaggiato, parlando al telefonino: una notte erano stati sultani di un piccolo ma ricco paese orientale, la notte successiva lei si era per incanto trasformata in una pericolosa ricercata, e lui in un poliziotto che la aiutava a fuggire. Paola aveva cercato di uccidersi, l’anno precedente, e gli chiedeva spesso, prima di chiudere la telefonata, come sarebbe potuta sopravvivere se lui non fosse comparso all’improvviso. Avevano fatto l’amore, una sera, guardandosi negli occhi, con le dita intrecciate e un sospiro soltanto. Ma non era lei. Paola aveva tutto per essere amata, per essere la donna giusta: tristezza, follia, bellezza, profondità, cultura. Ma non era Giada.
Forse il problema era che lui e Giada avevano continuato a sentirsi, di tanto in tanto: erano telefonate brevi, fanciullesche, per la maggior parte silenziose. Lei gli diceva “mi manchi”, “forse ho fatto un errore”. Lui respirava piano, cercando di rallentare il battito, sapendo che qualunque cosa avesse detto, non sarebbe servito. O forse era lui a essere sbagliato. Non era mai riuscito a concepire un rapporto con una donna privo della profondità degli occhi, dell’emozione del primo contatto fisico; nelle storie che lui amava raccontare c’era sempre uno sguardo individuato in mezzo a mille, che sapeva entrare nel profondo dell’animo e attanagliare le emozioni più intestine. Pensava fosse stupido perder tempo con qualcuno che non sa suscitarti quel tipo di emozioni: la vita è troppo breve per banalizzare se stesso con un amore che non è amore.
Il dolore, col passare dei giorni, era stato sostituito da una sostanziale apatia che gli aveva permesso di ricominciare a vivere, ma lo stare bene, beh, era un’altra cosa. Riusciva a passare anche due o tre giorni senza pensare a Giada, era tornato a ridere e a bere con gli amici di sempre.

Poi, aveva incontrato Ilaria al solito bar. Erano diversi mesi che non si vedevano e lei voleva essere aggiornata su tutto. Ilaria adorava Giada: aveva spesso sostenuto che erano perfetti insieme, la dimostrazione che l’amore davvero può avere un significato.
Poi, quella domanda.

“Giacomo, ho capito perfettamente la situazione”, aggiunse, visto che il nostro non era riuscito a far altro che borbottare qualcosa, “Ma il punto qual è? Mi hai raccontato tutta la storia come se fosse scritta su un libro dell’ottocento, come se l’avessi letta centinaia di volte. Hai perfettamente in mente la tua situazione, e non posso credere che il vecchio amico che io conosco così bene possa essere ancora qui, dopo tutto questo tempo, a piangersi addosso su quanto la vita sia stata ingiusta con lui. Tu non piaci alle donne, tu le fai innamorare. È un dono prezioso questo, non devi sottovalutarlo. Ma devi trovare questo maledetto “punto” adesso. Devi, dopo esserti raccontato per centomila volte questa storia, rispondere a una semplice domanda: e quindi?”

Giacomo guardò con rassegnazione il sorriso malefico che si era disegnato sulle labbra perfette della sua amica. Aveva ragione. Era perfetta la ricostruzione dei fatti, era perfetto tutto. Aveva addirittura ragione, quando pensava che Giada un giorno si sarebbe pentita di tutto. E quindi?

Quindi disse ciò che aveva nel cuore, l’ultima parte della storia, quella che non aveva raccontato a nessuno. Che aveva cercato in tutti i modi di nascondere anche a se stesso.
“E quindi, mia cara, io non voglio essere come tutti gli altri. Tutti avrebbero sorriso, dopo il lungo pianto, e avrebbero continuato a vivere la propria vita, buttandosi nel lavoro, nello studio, ma soprattutto tra le braccia di un’altra. Tutti avrebbero ascoltato canzoni tristi e coraggiose, avrebbero intonato Farewell di Guccini e voltato pagina su una storia che altro non era che una storia normale.
Ma io so che la mia era speciale. L’amore, se ce l’hai nel cuore, non puoi espellerlo. O lo annaffi, e lo curi, oppure ti marcisce dentro, e ti distrugge. Quindi vivrò la mia vita, ovviamente; continuerò a seguire i miei sogni, uno dopo l’altro. Ma non le dirò mai: “forse un tempo le mie parole potevano commuoverti, ma ora è inutile perché ogni volta che piangi e che ridi, non piangi e non ridi con me”. Perchè un giorno lei guarderà indietro a quello che siamo stati noi due, e io farò lo stesso: potremo avere un sacco di rimpianti, un sacco di rimorsi, oppure potremo pensare che nonostante il male che ci siamo fatti, siamo stati speciali l’uno per l’altra. Ilaria, capiscimi almeno tu: ecco qual è il punto. Io voglio continuare a essere speciale, e voglio che lei continui a esserlo. Perché quel giorno, in mezzo a mille, lei ha catturato il mio sguardo e l’ha fatto suo, e quando la guardo negli occhi, vedo ancora la stessa luce. Non posso pensare che non voglia significare nulla”.

Ilaria sorrise. “Eccoti, Giacomo. Sei tornato”.

martedì 22 aprile 2008

Incontro


L'uomo è seduto su una panchina di pietra, una di quelle che circondano la piazza.
Avrà 50, forse 60 anni, è grande e grosso. Ha una camicia che potrebbe coprire un'utilitaria in caso di pioggia, se volesse; un paio di enormi pantaloni scuri e due canoe al posto delle scarpe.
Mi correggo, non è seduto su quella panchina: ci è crollato letteralmente sopra, qualche minuto fa, e non si è più mosso. Singhiozza come singhiozzano i bambini di cinque anni a cui hanno portato via il lecca lecca. Il volto rotondo è ricoperto da una folta barba grigia, che si sta inzuppando delle lacrime che gli sgorgano dagli occhi, come un fiume che straripa dopo giorni di pioggia.
Tra le mani ha un foglio di carta, mezzo piegato e stropicciato.

Io sto passando proprio in quel momento. Il vuoto che ho dentro è in parte colmato dalla musica di De Adrè. Lui mi capisce, lui ha provato le stesse cose che provo io, le ha elaborate e trasformate in poesia. Sicuramente lo invidio per questo.
Una vocina nella testa mi stuzzica: "Hai sempre voluto essere triste e coraggioso come lui. Bene, ora che lo sei, non ti lamentare".
Incrocio lo sguardo dell'omone. Non cerca conforto, a differenza di me. Passo oltre, facendo finta di nulla, ma quegli occhi grandi e lucidi mi hanno aperto una voragine dentro.
Mi volto, lo guardo. Ha abbassato gli occhi, legge qualcosa.
Torno indietro, mi siedo vicino a lui, tolgo un'auricolare che suona Hotel Supramonte.
Non so cosa sto facendo, ma sto fermo li a guardarlo, seduto a pochi centimetri: il suo grosso torace si gonfia ad ogni respiro, ho la sensazione che possa esplodere da un momento all'altro.

Ma non succede. Anzi, si calma quasi, e il pianto diventa leggero, quasi impercettibile. Poi parla.

Ho perso una figlia, l'ho persa senza averla mai vista. Lei, la mia ragazza, era incinta, quando se n'è andata da me, per tornare al suo paese. In Argentina. Non me l'aveva detto e non potevo saperlo. Poi mi ha scritto anni dopo, dicendo che era felice, perchè aveva Paula. Mia figlia. Mi ha detto che dovevo andare a trovarle. Io non l'ho mai fatto, perchè l'odiavo per avermi lasciato qui solo, senza spiegazioni. Non le ho nemmeno risposto alla lettera.

Non lo interrompo, vorrei alzarmi per andarmene anzi. Ma rimango seduto, come impetrito.

Sono sempre rimasto solo, da quel giorno. Non sapevo se odiarmi o odiarla, se amarmi o amarla. Ho deciso di non scegliere, e ho vissuto senza vivere. Sono passati quasi vent'anni, lei mi ha telefonato e mi ha detto che Paula si sarebbe sposata. Le ho detto di lasciarmi stare, come uno stupido orso. Non ho perdonato, nemmeno così tanto tempo dopo, perchè? Perchè sono uno stupido, uno stupido orso.
Ora mia figlia ha avuto un incidente, e l'ho persa senza mai vederla.


Cazzo, penso. Dovrei trovare in fretta qualcosa da dire. Ma non riesco a dire nulla.
Lui mi guarda, per la prima volta da quando mi son seduto qui.
"Cosa ascolti?" mi chiede. De Andrè rispondo io. Gli porgo un'auricolare. Rimini sta suonando, in quel momento. Fa sparire la cuffia nella sua enorme mano, e l'avvicina all'orecchio.
Ascoltiamo insieme, senza parlare. Guardo la gente che passa: c'è chi ride, chi urla, chi parla, chi bacia e chi litiga al telefono.
Quest'uomo enorme, le sue lacrime, la sua storia... stanno risucchiando via il mio dolore. So che tornerà, tra quelche istante, ma per ora no. Si è fatto carico di tutta la mia sofferenza, condividendo con me la sua.

Finita la canzone mi restituisce l'auricolare. Mi ringrazia e si alza. E cammina verso una via laterale, che imbocca senza voltarsi.
Io rimango seduto ancora per qualche minuto. Vorrei correre a casa di lei, per abbracciarla. Ma rimango seduto, con la musica nell'unica auricolare che mi rimane.

E ora siedo sul letto del bosco che ormai ha il tuo nome
ora il tempo è un signore distratto è un bambino che dorme
ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano
cosa importa se sono caduto se sono lontano
perché domani sarà un giorno lungo e senza parole
perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole
ma dov'è finito il tuo cuore, ma dov'è finito il tuo cuore.

venerdì 18 aprile 2008

Asilo


Ci sono poche cose da dire quando il tuo cuore è talmente pieno di sentimenti così intensi e vivi.

Amore, Rabbia, Dolore, Malinconia, Freddo, Euforia, Disagio, Pulsioni di vita, Pulsioni di morte, Cattiveria, Speranza, Calore, Nostalgia.

Se provi a focalizzarti su di uno, ecco che gli altri sentimenti si incazzano di brutto, vogliono le loro attenzioni, urlano, si fanno più prepotenti. Perchè i sentimenti sono dei mocciosi di sei anni che ti vogliono tutto per se, e sono disposti a tutto pur di farsi prendere in braccio, anche a riempirti di calci lo stomaco.
Allora tu, che sei grande (sarà servito a qualcosa invecchiare?), li metti tutti buoni seduti in una stanza piena di giochi e di caramelle, cerchi di dare il giusto spazio a ognuno di loro. Ma sono stronzi, i sentimenti. Cominciano a litigare tra di loro, a prendersi a pugni, mentre li guardi impotente. E ti ritrovi da capo.

Te ne esci a fumarti una sigaretta, anche se hai smesso anni prima, e li lasci al loro destino. Che si azzuffino, non te ne frega un cazzo.
Allora il più piccolo di loro, ma il tuo preferito, esce nel cortile, ti viene vicino con gli occhi lucidi e ti tira i pantaloni con le manine appiccicose.
Fai finta di non vederlo, finchè non incroci il suo sguardo. Capisci che non è colpa sua. Butti il mozzicone in un angolo: lo prendi in braccio, lo accarezzi, e lui ti fa vedere un suo gioco che si è rotto.
Gli sorridi, gli prometti che gliene comprerai uno nuovo. Lui abbozza un mezzo sorriso.
Poi, per mano, entrate di nuovo nel palazzo. Gli altri mocciosi hanno smesso di picchiarsi, sono esausti, qualcuno disegna sui muri, qualcuno dorme sdraiato sul pavimento freddo.


Sono solo pompe sodio potassio che si attivano. Sai perfettamente quali sono i circuiti che ti provocano tutto questo. E saperlo non serve a un cazzo.

sabato 12 aprile 2008

Buon compleanno


Buon compleanno.
Soltanto questo.
Buon compleanno a te che mi facevi ridere, e ridevamo insieme.
Buon compleanno a te che quando dormi tieni la bocca leggermente aperta e i pugni chiusi davanti al viso.
Buon compleanno a te, con quel filo di mutandine che spuntano dai pantaloni che mi facevano venire strane idee.
Buon compleanno a te, che mi chiamavi con quel soprannome stupido ma che alla fine adoravo.
Buon compleanno a te che hai inventato la tana.
Buon compleanno a te, che se aspettavi me, chissà quando mai ci saremmo baciati.
Buon compleanno a te, che hai tutta una serie di facce buffe e sei un libro aperto, per chi sa leggerti.
Buon compleanno a te che balli con l'iPod nello orecchie, fregandotene di cosa pensano gli altri.
Buon compleanno a te che hai la voce da treno.
Buon compleanno a te che mi hai regalato un sacco divertente.
Buon compleanno a te che mi hai insegnato chi è Pennac.
Buon compleanno a te che non sopporti il solletico e ti viene quella vocina stupida quando ti stuzzicano in quel modo.
Buon compleanno a te che sai far sentire in colpa un tavolo di ragazzini quando vogliono ordinare una birra e tu sei stanca e vuoi andare a dormire.
Buon compleanno a te che vai in bici sui marciapiedi e hai una risposta pronta per le vecchie scorbutiche che ti urlano dietro.
Buon compleanno a te che non sai cucinare, ma che sai stupirti ogni volta di fronte a un piatto di sushi, una pizza di quel nostro posto e un gelato.
Buon complanno a te, che ami le cose pelose e metti l'aggettivo "enorme" davanti a ogni cosa che ti piace.
Buon compleanno a te, che volevi un pony in regalo.
Buon compleanno a te, che non ti ricordi le cose, ma alla fine ti ricordi sempre tutto.
Buon compleanno a te, che coi capelli corti e gli occhi da orientale sei bella come una giovane mamma.
Buon compleanno a te che parlavi in -otto.
Buon compleanno a te, che salvi il mondo nei panni di "Ormonina", e sai volare, diventare invisibile e un sacco di altre cose.
Buon compleanno a te che sai vestire una salopette senza sembrare un muratore.
Buon compleanno a te che, come dice jovanotti, hai preso la mia vita e ne hai fatto molto di più.
Buon compleanno a te che amavi farti "impallare".
Buon compleanno a te, che guardi tutti quei programmi idioti alla tv, ma il problema non è leggere novella 2000, il problema è leggere solo novella 2000.
Buon compleanno a te che non posso far altro che aspettare, finchè il cuore non diventerà pietra.
Buon compleanno, a te. Che ho incontrato per caso e hai cambiato per sempre la mia vita. E ne è valsa la pena.

giovedì 3 aprile 2008

Una sera, dopo lavoro


Guidava piano, ma non per scelta. Il traffico era sempre lentissimo, la sera, quando usciva dall'ufficio. Era stata una giornata stressante: il suo capo, un porco di prima categoria, aveva insistito con le solite allusioni sessuali: lei non lo sopportava, ma era costretta a subire con uno stupidissimo abbozzo di sorriso.
Eppure un tempo aveva amato il suo lavoro alla galleria: lo stretto contatto con artisti famosi, la possibilità di esprimere la propria creatività, l'odore della pellicola appena stampata...
Un vecchio signore alla guida di una vecchia bmw, indeciso su quale strada prendere, le fece perdere l'ennesimo semaforo verde: sbuffò, ma nulla più. Solo qualche settimana prima avrebbe pigiato con tutta la forza che aveva il pugno sul clacson, ma da tempo ormai le cose erano cambiate. Non sapeva se era rassegnazione o stanchezza, ma nulla suscitava in lei stimoli alla rabbia, ormai. Forse era un problema, ma per ora si godeva questa parentesi di apatia.
Pensò a sua madre, erano diverse settimane che non la sentiva, da quando aveva scoperto il fatto. Forse avrebbe dovuto chiamarla, per rassicurarla che tutto procedeva tranquillamente. Prese il cellulare dalla borsa, compose il numero, ma poi lo gettò sul sedile del passeggero senza avviare la chiamata.
Al semaforo successivo accese una sigaretta, abbassò di poco il finestrino e tirò un paio di boccate lunghe e intense, cercando di trattenere il gusto dolciastro della Camel nei polmoni per il maggior tempo possibile.
Finalmente stava uscendo dal centro cittadino, il traffico cominciava a sfoltirsi e il tragitto verso casa diventava sempre più confortevole. Il sole cominciava a tagliare il proprio profilo dietro i monti, acquistando le tonalità del tramonto, e trasferendole a tutta la natura circostante.

Sono queste le cose per cui vale la pena vivere, pensò.

Arrivò di fronte alla propria abitazione, parcheggiò la macchina e spense il motore. Si guardò nello specchietto per un attimo, prima di scendere: la frangia era ordinata, il trucco perfetto, come al solito. Era sempre stata una bella ragazza, e ora era una bella donna. Sofisticata ma semplice, sapeva fingere un sorriso al momento giusto, sapeva trattare con gli uomini. E il nuovo colore dei capelli la ringiovaniva di diversi anni.
Scese dall'auto, prese la valigetta sul sedile posteriore, chiuse la portiera, inserì l'antifurto satellitare. Camminò sul vialetto che conduceva alla porta della piccola villetta monofamiliare in cui viveva, cercando di assaporare il profumo dei fiori che cominciavano a sbocciare sugli alberi e sugli arbusti. Giulia, la figlia dei vicini di casa, era seduta sul praticello di fronte alle abitazioni: giocava con un cavallino di legno e una macchinina rossa. Strana accoppiata, pensò, sorridendole e salutandola con la mano. La bimba rispose con uno sguardo innocente. Pensò che le sarebbe piaciuto avere dei figli, un giorno.
Infilò la chiave nella serratura, aprì la porta, entrò.
Tutto era in ordine, come aveva lasciato quella mattina, prima di uscire. Appoggiò la valigetta sulla poltrona, accese la televisione, senza audio, e andò in camera da letto, dopo aver premuto il tasto "delete" della segreteria telefonica.
Sapeva che c'erano dei messaggi per lui, e non voleva ascoltarli.
Si spogliò ripiegando con cura i vestiti, ripose con delicatezza il reggiseno e le mutandine nel sacco della biancheria sporca, e si infilò nella doccia.
Appoggiò la testa contro il muro, a occhi chiusi, mentre l'acqua calda l'accarezzava come nessun uomo era mai riuscito a fare. Rimase immobile per circa una ventina di minuti, poi uscì dalla doccia, si infilò l'accappatoio bianco e un asciugamano a turbande intorno ai capelli bagnati.
Andò in cucina, prese nel frigo alcuni sacchetti argentati, nella dispensa il pacco del pane confezionato e preparò due panini. Riempì un bicchiere di latte per trequarti, e poi ripose in frigo gli avanzi. Sistemò tutto sul vassoio, e si recò verso lo studio.
Aprì la porta della stanza nella quale aveva rinchiuso suo marito dieci giorni prima, ed entrò.
Lui era ancora legato alla sedia, completamente nudo, come lo aveva lasciato.
Era un po' preoccupata, perchè negli ultimi giorni aveva perso i sensi diverse volte, si era indebolito troppo. Non voleva che morisse, non ancora. Alcune chiazze di sangue macchiavano il pavimento, al di fuori del telo di nylon che aveva deposto con cura sotto la sedia: un tremito di rabbia le percorse la schiena, per poi rientrare immediatamente.
Era sveglio, e quando lei accese la luce, cercò di voltare lo sguardo per non essere accecato. Tossì, sputando alcune goccie di sangue. Non poteva parlare, dopo che lei gli aveva tagliato la lingua, il secondo giorno.
Si sedette su una sedia libera, davanti a lui, distante cinque metri circa. Non voleva sporcare di sangue l'accappatoio nuovo. Mangiò la cena fissandolo, incurante dei suoi lamenti confusi. Guardò la foto del loro matrimonio, appesa sulla parete di sinistra: lei sorrideva, abbracciandolo; lui guardava di lato. Avrebbe dovuto capire già allora.
Erano stati sposati cinque anni, prima che lei scoprisse che si vedeva con Nadia, la sua segretaria. Che banale.
Aveva pianto, all'inzio, poi però aveva capito che non ne valeva la pena. L'aveva colpito con un martello alla nuca, una sera, mentre guardava la televisione. Lui era caduto, e avevo macchiato di sangue il copridivano. L'aveva odiato per questo.
L'aveva trascinato qua, nel suo studio; l'aveva spogliato e legato alla sedia. Non gli aveva più parlato, da allora. Lui aveva urlato, all'inzio. Poi aveva cercato di convincerla a liberarlo, fingendo di non capire perchè si trovava in quella sconveniente situazione. Poi aveva ammesso e chiesto scusa, e finalmente lei aveva potuto, senza dire nulla, tagliargli la lingua con le forbici trinciapollo. Da allora erano passati otto giorni, durante i quali aveva martoriato il suo corpo con minuzia, ma nutrendolo quel tanto che bastava, amorevolmente.
Qualcuno suonò il campanello, improvvisamente. Posò il vassoio sul pavimento, scrollò le briciole dall'accappatoio, sorrise a suo marito che la guardava con gli occhi svuotati di ogni traccia di vita, spense la luce e andò verso la porta.

"Nadia, scusa se non mi sono fatto sentire per diversi giorni, ma ho avuto un problema con mia moglie. Finalmente è fuori città per qualche giorno, vorrei che tu venissi da me, questa sera, sarà fantastico"

Questo era l'sms che si era decisa a mandare alla segretaria di suo marito, quella mattina, con il cellulare di lui, dopo qualche giorno di titubanza.
Andò verso la porta, fischiettando un motivetto che aveva in testa, buttò un occhio allo schermo della televisione, che trasmetteva il notiziario serale.
Aprì il cassetto della credenza vicino all'ingresso, estraendo il martello con la mano sinistra, e nascondendolo dietro la schiena. Poi aprì la porta, con un largo e sincero sorriso.

Si erano incontrate solo una volta, in passato, alla cena di Natale di tre anni prima, chissà se si sarebbe ricordata di lei. Era curiosa.

"Ciao, Nadia", disse, con entusiasmo, stringendo con una forza quasi isterica le dita della mano sul manico di legno.