giovedì 21 febbraio 2008

Mondo senza bugie


I ragazzini sognano, anche quando hanno gli occhi aperti.
Soprattutto la sera, quando si sdraiano nel lettino e aspettano che il sonno abbia il sopravvento, i ragazzini ingannano il tempo viaggiando col pensiero, immaginando mondi mai visti, dopo protagoista è soltanto la fantasia.
Anche io sono stato un ragazzino, e ricordo alcune delle mie fantasie più ricorrenti.
Banalmente, la maggior parte riguardava un me molto meno timido e molto più eroico, che salvava la vita alla copagna di banco di turno e veniva amato per sempre.
Però la fantasia che ricordo meglio era quella del "mondo senza bugie". Immaginavo di finire, per mezzo di una navicella spaziale, su un pianeta alieno, sul quale abitavano persone identiche a noi: questi extraterrestri differivano da noi soltanto per un motivo. Nel loro mondo, non era possibile mentire. Capiamoci: non è che le bugie erano proibite a norma di legge, ma proprio essi non avevano la capacità di mentire, non concepivano la menzogna. Su questo mondo, non esistevano le bugie. E se le tesi di due persone non coincidevano, non si pensava mai che uno dei due stesse mentendo: semplicemente uno si ricordava male, oppure era pazzo.
Non si trattava però di un sogno utopistico, una sorta di coscienza nascosta nel mio animo di ragazzino che si auspicava la scomparsa della menzogna, tutt'altro.
Io, appena arrivato sul pianeta, cominciavo a mentire. A tutti, in modo indiscriminato. Raccontavo di essere un dio sceso in terra, e loro ci credevano. Dicevo loro che ogni mese, per essere salvaguardati, dovevano darmi almeno 100 milioni delle loro unità monetarie (che col cambio attuale si aggirano intorno ai 2 milioni di euro), e loro lo facevano, perchè sul loro mondo la bugia non esiste.
Il saper mentire mi dava modo anche di soddisfare le mie prime pulsioni sessuali: le ragazze più belle del pianeta erano costrette a stare con me, perchè era la volontà del dio. E non lo facevano controvoglia: io dicevo alla bella di turno che lei, la sera prima, aveva detto di amarmi. Lei mi credeva, perchè non potevo mentire. E se non se lo ricordava, era solo perchè uno spirito maligno voleva impedirle di unirsi al suo dio.
Adesso che ci penso, queste fantasie denotano una certa forma di patologia: sensazione di onnipotenza quasi berlusconiana, narcisismo, ecc.

Però oggi, che compio 26 anni, mi piace pensare a quel me quattordicenne che si godeva la propria spensierata giovinezza, senza rendersi conto di quanto in fretta gli anni successivi sarebero volati.
Spero di non averti deluso, Cico che non ti chiamavi ancora Cico, anche se non ho ancora trovato il "mondo senza bugie".

sabato 16 febbraio 2008

Pregiudizio


Ieri sera, con l'ambulanza, sono andato a prendere un ragazzo privo di sensi. Al telefono la centrale mi ha detto che il tizio era intossicato, steso sul pavimento. Codice rosso. La centrale non ti dice mai con certezza cos'ha il paziente, ti dice solo due lettere e un numero. R 7 K era il mio codice, e doveva bastarmi. R sta per rosso, 7 sta per intossicato, K sta per casa.
Arrivato sul posto, ho capito. Overdose. L'ho capito perchè il tizio era sulla trentina, coperto di tatuaggi, rasato, con due cicatrici sul viso.
Per la cronaca l'abbiamo tirato su, preso per un pelo, e riportato nel mondo dei vivi.
Domani probabilmente ci riproverà.

Ma non è questo il punto. Mi sono sentito un po' una merda, tornando a casa, con l'ambulanza, dopo l'intervento. Appena l'ho visto coricato sul pavimento, privo di sensi, ho capito che era un tossico, solo guardandolo. Perchè aveva l'aria da tossico. E fortunatamente questa "brillante" intuizione gli ha salvato il culo, ma il mio era un pregiudizio. Avrebbe potuto essere qualcos'altro, e probabilmente se non avesse avuto l'aspetto che effettivamente aveva, avremmo optato per una soluzione alternativa.
Se sul pavimento avessi trovato, ad esempio, un tizio "normale", avrei pensato a funghi, cibo andato a male, sonniferi, latte rancido, gas, sonno; tutto tranne che eroina. Almeno all'inizio.

Ma poi mi sono sentito meno merda, e ho pensato che è meglio così. Il pregiudizio è fondamentale in questi casi.
È un bene, per un tossico, avere l'aria da tossico. Gli può salvare la vita.

sabato 9 febbraio 2008

L'innamorato


Mancano pochi minuti, poi lei finalmente arriverà.
Il bar è semivuoto, poche persone sole occupano alcuni tavoli sparsi nella sala: alcuni leggono svogliatamente il giornale, altri parlano al telefonino. Un alieno, entrando, penserebbe che gli esseri umani non sanno comunicare tra loro.
Sono appoggiato alla sedia da circa venti minuti, fisso la tazzina vuota tenendomi le tempie con le mani: vedendomi, potreste scorgere sul mio viso un sorriso innaturale, come ogni volta che penso a lei.
L'ho conosciuta quasi per caso in una fredda mattina di gennaio, alla fermata del bus giù in città, vicino all'università. Lei era appoggiata alla ringhiera arrugginita, muoveva la testa sulle note di una musica che solo lei poteva ascoltare, attraverso le cuffie che si perdevano nelle profondità della giacca. Una sciarpa colorata, di lana, probabilmente confezionata a mano dalla nonna, le copriva gran parte del viso: si potevano scorgere soltanto gli occhi, di un colore misto tra il mare e il cielo, con sfumature di sete orientali. C'era stato un gioco di sguardi, sempre più intenso: non si vedeva, ma attraverso la pesante coltre mi aveva più volte sorriso.
Mi ero, ovviamente, subito innamorato di lei, e poco dopo lei aveva cominciato a corrispondere i miei sentimenti. Non poteva andare diversamente, d'alronde: la coprivo letteralmente d'amore, attraverso piccoli gesti quotidiani che non possono far altro che sciogliere il cuore di una donna. Le facevo regali, le inviavo dolci messaggini quotidiani a qualunque ora del giorno; due volte le avevo fatto spedire a casa enormi mazzi di fiori, anonimi: adoravo pensarla a casa nella sua cameretta, che fingeva di non sapere chi le aveva rallegrato la giornata.
Ho sue fotografie nel diario, praticamente in tuti i libri, nel portafoglio...
E tra poco, finalmente, arriverà: anche se ci frequentiamo ormai da quasi un anno, ogni volta ho l'agitazione del primo appuntamento.
Nervoso, tormento l'orologio, buttando lo sguardo sempre più frequentemente verso la porticina del bar, velata dalla condensa.
I minuti passano, ordino altri tre caffè per ingannare l'attesa; poi, improvvisamente, eccola.
Apre la porta con la mano inguantata, si scrolla come un cagnolino per il freddo e con un meraviglioso sorriso saluta il barista. Indossa la stessa sciarpa del giorno in cui l'ho conosciuta: adoro questi piccoli gesti spontanei. Si sbottona il giaccone, mentre cammina nella mia direzione: il mio cuore comincia a battere all'impazzata, non capisco come, ancora oggi, possa fari questo effetto. La mia donna: magica, straordinaria, fantastica, capace di scatenare in me il battito animale di cui parlava una vecchia canzone. E cosa più importante, è mia, soltanto mia.
Passa vicino al mio tavolino, quasi mi sfiora: ho giusto il tempo di rituffare lo sguardo all'interno dei fondi del mio ultimo caffè; c'è mancato poco questa volta. Credo non abbia nemmeno notato questo mio gesto isterico: raggiunge il suo ragazzo dall'altra parte della stanza, gli sorride, lo bacia ridendo sulla bocca.
Volto lo sguardo, la osservo con la coda dell'occhio: un altro sorriso deforma il mio viso. Lei è la mia donna, solo mia.

Prima o poi se ne renderà conto anche lei, e allora staremo insieme, per sempre.

martedì 5 febbraio 2008

La signora dagli occhi tristi


Lei non aveva mai amato gli ospedali. Era per quello che, seduta in quella sala d’attesa, traspirava da ogni suo poro il suo disagio. Pensare che non era nemmeno venuta lì per se, ma doveva solo accompagnare un’amica, che era svenuta mentre camminavano in centro (un calo degli zuccheri, nulla di grave, aveva detto il ragazzo col camice bianco, con gli zoccoli da corsia e due penne nel taschino sul cuore). Perché ci mettevano così tanto, se non era grave? Voleva scappare di lì; l’odore, i rumori, il colore delle pareti, tutto insomma urtava il suo spirito libero. Guardava gli uccellini dalla finestra planare per raggiungere il nido e ripartire subito dopo, verso chissà quale meta misteriosa. Il suo sguardo si posò poi sulle sue scarpette gialle: le scarpe del week-end le chiamava lei: se sapeva che avrebbe dovuto passare il pomeriggio lì dentro avrebbe messo qualcosa di più neutro, come se qualunque colore vivo stonasse all’interno di quella corsia. Sollevando nuovamente lo sguardo, vide una signora molto anziana, seduta su una carrozzina, che qualcuno aveva dimenticato davanti a lei. Non era la posizione innaturale in cui la vecchia era seduta, nemmeno la flebo gigantesca che le bucava il braccio, quello che la colpì: erano piuttosto gli occhi tristi e profondi, rassegnati, che sembravano ascoltare una musica lontana.
Quella scena le mise un senso di disagio ulteriore, voleva andarsene, fuggire via. E se lei da vecchia fosse diventata così, sola, dimenticata?
“Sai cosa sta pensando?”. Una voce proveniente dalla sua destra la riportò alla realtà: un ragazzo, apparentemente della sua stessa età, era seduto due sedie più lontano, con le braccia incrociate sul petto e le gambe distese. La guardava con un sorriso appena accennato, e uno sguardo sicuro. Lei non sapeva se rispondergli, non le piaceva parlare con gli sconosciuti, specialmente in una situazione come questa: ci mancava solo uno scocciatore che rompesse il silenzio con qualche banalità… Ma lui non aspettò una risposta: dopo essersi alzato, le si avvicinò, sedendosi nella sedia libera al fianco di lei. Lui avvicinò la testa a quella della nostra amica, come per volerle bisbigliare qualcosa nell’orecchio: lei non poteva muoversi, qualcosa la tratteneva. Il giovane posò in modo delicato ma sicuro una mano sul braccio di lei, poi cominciò a parlare, piano, a bassa voce, guardando in modo defilato l’anziana signora. “Immagina una pista da ballo, vicino ad un lago artificiale poco fuori il paese; c’è una grande festa, tutti sono invitati. Non ci sono lampioni o fari, ma solo grosse lanterne attaccate ai salici che si perdono fin dove l’occhio può arrivare. Ma l’illuminazione è garantita ulteriormente dai raggi della luna piena, che rotonda sorride sopra i monti. Una musica d’atmosfera sta già suonando, ma nessuno balla ancora: i ragazzi sono tutti da un lato della pista, chi fumando sigarette americane, chi invece chiacchierando degli ultimi esami universitari o del lavoro. Le ragazze invece, abbellite come non mai, hanno il vestito lungo che lascia in modo malizioso intravedere la calzetta di cotone bianco, e sorridono tra loro. Ad un certo punto l’orchestra prende l’iniziativa, scandendo un lento moderno: è il momento che comincino le danze. I ragazzi si avvicinano invitando le dame, che poco a poco sciolgono gli indugi e si lasciano convincere: solo lei, la più bella di tutte, non ha ancora acconsentito l’onore a nessuno. Tutti i giovani hanno provato, certo, a conquistare quei pochi minuti di sogno con lei, ma invano. Ma proprio quando tutto sembra far pensare che quel ballo l’avrebbe perso, ecco che un giovane straniero le si avvicina, e lei comincia a ballare. Lui non è più bello degli altri, e non ha detto una parola, non può averla conquistata con qualche banalità. Non fa parte della massa, è lontano anni luce da lì, e lei spera che possa portarlo via con lui, lontano, distante anni luce dalle noie quotidiane.”
La ragazza dalle scarpe gialle ascoltava queste parole trattenendo il respiro, non osando quasi guardare la vecchia dagli occhi tristi. “Ma poi, finito il ballo, l’uomo misterioso si allontana com’è venuto, e lei, pur volendo corrergli dietro, lo lascia andar via, senza far nulla. Si sposerà, vivrà una vita felice, ma un giorno, vecchia, in un triste ospedale dimenticata dai figli e dai nipoti, non penserà ad altro che alla vita che avrebbe potuto vivere. Al suo potente amore misterioso.” Detto questo, il giovane si alzò e si diresse verso l’uscita. Lei, per la prima volta, non riuscì a muoversi. Aveva appena visto, con occhi non suoi, un tempo che non le apparteneva.
E si stava innamorando.

lunedì 4 febbraio 2008

Scrivere


Mi piacerebbe poter dire di essere una di quelle persone che scrivono, scrivono e ancora scrivono. Quelli che annotano ogni singolo pensiero su un quadernetto, e poi accumulano centinaia di questi quadernetti uno sull'altro, in un armadio o dentro una vecchia scrivania, e con tutti questi quadernetti potrebbero farci una specie di montagna se li mettessero uno sopra l'altro. E poi, rileggendo questi quadernetti, scoprono quanto sono cambiati, quanto sono cresciuti, quanto sono stati stupidi e giovani.
Invece io non lo faccio. Vedo amici e conoscenti che scrivono anche tre post al giorno, sui loro blog, trovando sempre argomenti interessanti senza ripetersi.
E li invidio.
Però non lo faccio. Ho scritto qualche racconto, quando ero particolarmente ispirato, ho scritto diverse pagine su diverse moleskine, riempiendole di frasi non legate tra loro, ma non è la stessa cosa. Non sono uno scrittore, dovrei forse rassegnarmi a lasciar perdere questo, che forse è il mio più grande sogno.

Ma quando rileggo le poche cose che ho scritto, mi commuovo, chiudo gli occhi, rido e sorrido. E rifletto. E mi piaccio un po' di più. Perchè certo non sono il moderno Kafka, nemmeno un geniale Stefano Benni, o un Leopardi con l'infanzia più allegra, ma proprio perchè non scrivo ogni puttanata che mi viene in mente, so che quello che rimane è la parte più preziosa di me.

Come l'articolo su San Valentino che sto preparando per il giornale nuovo, per il quale lavoro: so che qualche nonna ben pensante storcerà il naso leggendolo, ma poi ci penserà magari dopo qualche ora, e non potrà che sorridere, ripensando a quando era giovane e bella, ora che giovane non è più.